Nel giro di 100 ore avvengono due attentati tragici, mostruosi: difficile trovare gli aggettivi adatti. La sera del 28 giugno, l’aeroporto di Istanbul viene preso d’assalto da almeno sette terroristi dell’Isis. La sera del 1° luglio, altri sette terroristi, o non si sa quanti ancora esattamente, assaltano un ristorante nel quartiere delle ambasciate e della residenza occidentale nel Bangladesh, l’antico Bengala, a Dacca.
Decine di morti e di feriti, un macabro conto mensile e il dolore bruciante che nella lontana Dacca, ci siano nove italiani, uccisi con indicibile crudeltà perché “non conoscevano il Corano”. Un rito blasfemo e osceno, degno di una guerra senza quartiere e senza neppure le più elementari regole da rispettare, che pure la guerra, quella vera e tradizionale, aveva in qualche modo stabilito.
Adesso, con analisi anche corrette, arriva la razionalizzazione dell’impennata terroristica, della risposta dello stato islamico o del “concorrente” Al Qaeda, in seguito alle sconfitte sul terreno nella guerra più convenzionale che si svolge tra Iraq, Siria e altri posti del martoriato Medio Oriente, con azioni e raid terroristici alle porte o nel cuore del mondo occidentale.
Il Bangladesh, l’antico Bengala indiano, è un territorio solcato da quaranta fiumi, che spesso interrompono le vecchie strade lasciate dagli inglesi e si devono usare continuamente enormi chiatte per continuare il viaggio verso sud, verso la Birmania, passando da città come Cox Bazar, terra conquistata a sciabolate dal capitano Cox con altri pochi britannici avventurosi contro alcuni sparuti indigeni, tigri e serpenti. Dacca, già alla metà degli anni Ottanta, contava quasi venti milioni di abitanti, ma nessuno lo sapeva ed è difficile che se ne sappia adesso il numero esatto, perché l’anagrafe in quei posti è stata sempre un optional. In quell’infernale crogiolo di umanità, la predicazione terrorista è di una facilità disarmante.
Anche se i bengalini o bengalesi, prima nell’India imperiale inglese, poi nel Pakistan, poi come stato indipendente sono, nella stragrande maggioranza, sempre stati grandi lavoratori di religione musulmana abbastanza laica. Persone intraprendenti che, con i tempi giusti, sarebbero arrivate a uno sviluppo tranquillo e sicuro. Invece anche il Bangladesh deve seguire i ritmi della globalizzazione forzata. Ormai i tempi sono dettati dal modello che ha fatto diventare la Cina una potenza comunista e capitalista allo steso tempo, una sorta di ircocervo che alla fine esploderà inevitabilmente, oltre a essere già adesso una cloaca inquinata. Quindi il piccolo Bangladesh si adegui con tutte le sue intrinseche debolezze.
Per carità, la globalizzazione è un processo giusto e inevitabile, ma verrebbe voglia di ripetere concetti ormai antichi: la storia ha tempi e scadenze che vanno rispettati, altrimenti si rischia di esserne travolti. Qui non vogliamo ripetere la storia delle crociate o risalire alle responsabilità di Pietro l’Eremita e neppure guardare le tappe contraddittorie della colonizzazione e della decolonizzazione, per condire l’argomento con i “sentito dire”. 



Lasciamo ai grandi storici questo compito. Ma si può fare un ragionamento che parta dal 1994, quando la Word Trade Organization imprime alla globalizzazione una svolta tumultuosa. Andrebbe pure fatto e forse dovrebbe essere corretto, perché, lo si voglia o no, è in quegli anni che è nata “l’epoca della grande incertezza” e quella della grande confusione.
Il grande sviluppo globale, il grande business generalizzato, può essere accompagnato, promosso, ma non può calpestare storie e tradizioni secolari, senza rischiare contraccolpi terrificanti. Quando si arriva alla grandi svolte storiche, occorrono grandi classi dirigenti, scelte oculate e ponderate altrimenti si va incontro a rischi terribili. Giulio Tremonti, nel 2008, scriveva: “Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato dai demoni”.
Aveva presente, Tremonti, un personaggio come il gesuita spretato Naphta, uno dei protagonisti de La montagna incantata di Thomas Mann, quando ragiona sul passaggio dal mondo di Tolomeo a quello di Copernico. Le conseguenze anche di una scoperta giusta diventano imprevedibili. Spesso inconsapevolmente ci si consegna a personaggi che diventano involontari demoni, come i “sonnambuli” del 1913, che fecero prevalere gli interessi degli Stati maggiori degli eserciti rispetto a quelli degli statisti politici. Risultato? La guerra mondiale.
A ben pensarci, non è il nuovo demone di una grande svolta epocale il terrorismo di questi anni ? Non è l’oscuro e l’irrazionale che emerge dalle pieghe della storia? Di fronte a questa “distruzione della ragione”, come dovrebbe rispondere il mondo della democrazia e della civiltà occidentale?
Quello che ci si aspetta è la compattezza di un fronte della razionalità e del buon senso, contro la barbarie. Una compattezza di principi, di difesa delle origini, del buon senso. Una compattezza di collaborazione militare se necessaria, di intelligence, di prevenzione, di collaborazione, di solidarietà. Insomma la difesa della propria identità che ha di fatto guidato il mondo civilizzato e democratico.
Quello che stupisce è invece la tenacia cocciuta di una classe dirigente occidentale che si difende l’ideologia per come si devono “fare gli affari”, per come si devono gestire i derivati e gli altri prodotti finanziari e per come si debba esercitare la propria egemonia, all’interno di uno stato o di una comunità sovranazionale. Offrendo in questo modo un’immagine di divisione, di frammentazione, di contrapposizione interna, di impressionante impoverimento e di spaventosa differenza di ricchezza tra classi sociali. Tutto questo, non è difficile intuirlo, può solo favorire la forze dell’irrazionalità.
Il mondo oscuro del terrorismo colpisce proprio quando vede l’Occidente, i “crociati”, nei suoi momenti di maggiore debolezza. E’ possibile che questa sgangherata classe dirigente occidentale riesca a comprendere la reazione e riesca a riformarsi non con il “nuovo” per il “nuovo”, ma con la riscoperta della antica razionalità politica?



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