Nel dibattito italiano innescato dall’esito della Brexit è stato rievocato il referendum italiano del 1989, che costituirebbe, secondo autorevoli opinioni, un modello ripetibile da noi per un’eventuale decisione di recesso dall’Unione Europea: occorrerebbe e sarebbe sufficiente approvare — come si fece allora — una legge costituzionale che consenta al corpo elettorale di pronunciarsi a tal proposito, perché la Costituzione vigente esclude dai possibili oggetti del referendum abrogativo proprio le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, quelle, per intenderci, che, dal 1957 in poi, hanno via via segnato le tappe del processo di integrazione comunitaria. 



E d’altra parte — si aggiunge — la riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati ad esprimerci, ancora una volta con un referendum, contiene proprio una disposizione (art. 71, ult. co.) che attribuisce alla legge costituzionale il compito di stabilire “condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo” (salva però la necessità che una legge ordinaria bicamerale detti le modalità di attuazione, con immaginabili effetti di dilazione nell’attuazione dell’istituto…). 



Sembra dunque che anche gli italiani abbiano a portata di mano lo strumento per svincolarsi dalle “pastoie” europee: un mezzo schiettamente conforme alla (comprensibile) rivendicazione di democraticità alla quale, dopo anni di relazioni sostanzialmente intergovernative, ci si richiama da più parti, sotto la pressione di una evidente crisi nel funzionamento dell’Unione Europea, a dispetto del Trattato che dovrebbe garantirlo.

Ma per poter apprezzare compiutamente senso e limiti della rievocazione del referendum svoltosi nel fatidico 1989, conviene riferire qualche dato che ne contestualizzi il significato e il (mancato) portato effettuale, anche al di là del mero meccanismo giuridico, che pure suscitò un interessantissimo dibattito in sede parlamentare.



E conviene segnalare, in primo luogo, che è dubbio si trattasse di un referendum propositivo, consultivo o di indirizzo: nella relazione al ddl costituzionale che ne disponeva la celebrazione (di iniziativa parlamentare, tra i cui primi firmatari figurava Giorgio Napolitano), si parlò di natura istituzionale, di modifica costituzionale che approssimava la consultazione a quella del 2 giugno 1946, “piuttosto che a qualsiasi altro referendum”. 

In effetti, il quesito, nella versione definitiva di cui alla legge costituzionale 2/1989, significativamente rubricata “Indizione di un referendum di indirizzo sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo che sarà eletto nel 1989“, era così formulato: “Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?“. 

La qualificazione trovò ampio, puntuale consenso negli interventi in aula, sia alla Camera che al Senato: si ritenne che il nostro Paese si trovasse ad un tornante essenziale, caratterizzato dall’incalzante internazionalizzazione dell’economia e dall’accelerazione impressa al “cammino comunitario” dall’Atto Unico Europeo, che, in vista della costituzione del mercato unico e della sua affermazione quale principio istituzionale dominante, sottraeva agli Stati alcune essenziali prerogative della sovranità economica e, pertanto, della sovranità tout court

In Italia, in particolare, l’impatto era stato e avrebbe continuato ad essere particolarmente forte, poiché venivano meno le istituzioni della cosiddetta “economia mista” che si era sviluppata a partire dalle disposizioni della Carta costituzionale del 1948, secondo l’interpretazione affermatasi. 

È ben noto, infatti, che già l’Atto Unico incideva in modo radicale sugli strumenti di governo pubblico dell’economia, quali la moneta e il controllo della liquidità, il tasso di cambio, il tasso di sconto, la leva fiscale e ciò in forza della decisione, definitivamente assunta ratificando tale Trattato, di aprire completamente il sistema statale al mercato, liberalizzando anche i capitali e i servizi finanziari.

Doveva trattarsi di un passaggio preparatorio alla costituzione dell’unione monetaria e, poi, di quella politica: tappe essenziali affinché l’integrazione comunitaria potesse compiersi in condizioni di effettiva parità, come richiesto dall’art. 11 della Costituzione.

Diversamente — come aveva già acutamente avvertito Giuseppe Guarino — gli Stati (e, quindi, le loro collettività) sarebbero rimasti a fluttuare in concorrenza tra loro, con la conseguenza che, in luogo di un nuovo assetto politico corrispondente (e coerente) con il conferimento di quote di sovranità nazionale, si sarebbe creata una sorta di “lega egemonica”: la differenza di condizioni di partenza al momento della fondazione del mercato unico, infatti, avrebbe consentito ai Paesi con ordinamenti più conformi ai suoi principi giuridico-economici di condizionarlo e di condizionare altresì gli altri Paesi, le cui limitazioni di sovranità si sarebbero quindi convertite in cessioni a favore dei primi.

Uno scenario complesso e delicatissimo, in considerazione del quale si decise, con una dose forse eccessiva di ottimismo e di fiducia nei “consoci” europei, che la garanzia del perfezionamento dell’unificazione politica potesse essere costituita dal conferimento di un “mandato costituente” ai parlamentari europei eletti dagli italiani, affinché e sull’assunto che il Parlamento europeo — che con propria risoluzione aveva auspicato il coinvolgimento delle collettività — procedesse direttamente alla redazione di un progetto di costituzione europea da sottoporre alla ratifica dei competenti organi degli Stati membri della Comunità.

Se per un verso tale determinazione portava per la prima volta direttamente il popolo italiano — che vi corrispose entusiasticamente (votò l’80,68 per cento degli aventi diritto e prevalse la risposta affermativa con la schiacciante maggioranza dell’88,03 per cento) — sul proscenio degli affari internazionali, per altro verso gli effetti che ne seguirono furono tutt’altro che conformi alla direttiva espressa dal corpo elettorale.

Aveva ragione il professor Antonio La Pergola, all’epoca ministro per le politiche comunitarie, quando affermava che il referendum, ove approvato, avrebbe posto “implicitamente, una norma che adatta in anticipo il nostro ordinamento all’eventuale trasformazione della Comunità configurata dal Trattato di Roma in unione politica, in un sistema federale di Stati”: ma l’effetto di approvazione ex ante, a livello costituzionale, delle modifiche all’ordinamento comunitario e, più in particolare, del passaggio dei cittadini — per proseguire con le parole del ministro — “da una sfera all’altra di autorità sovrane: nel nostro caso, da un sistema che lascia sopravvivere la sovranità degli Stati membri ad una vera e propria sovranazione” si sarebbe verificato anche a prescindere dall’avverarsi delle condizioni indicate nel quesito referendario (ossia la provenienza dell’iniziativa della revisione del Trattato e la redazione della costituzione europea da parte del Parlamento di Strasburgo). 

Successivamente, com’è noto, non si è giunti ad alcuna unificazione politica, né è stata approvata una costituzione europea, men che mai con una forma di governo parlamentare: si addivenne, viceversa, alla conclusione del Trattato di Maastricht in sede intergovernativa, che, invece di istituire l’unione politica, avrebbe dato avvio, per dirla con Guarino, a quel “sistema robotizzato eterodiretto” le cui conseguenze negative continuano ancor oggi, aggravate, a prodursi.

In altri termini, invece di “diffondere la coscienza europeistica con un salutare contagio degli altri popoli e degli altri Governi” e di acquisire una “condizione di vantaggio nel momento in cui maturassero le condizioni per negoziare un nuovo Trattato di Unione” — sono sempre parole del Ministro La Pergola — l’essere stata “la sola e comunque la prima nazione ad avere modificato in anticipo la propria Costituzione in vista di questo storico traguardo” ha posto l’Italia in una condizione di (autoinflitta) disparità rispetto agli altri Stati europei e, in definitiva, di ulteriore debolezza nei loro confronti, anche per quanto attiene alle garanzie democratiche.

Ed infatti, per un paradosso che merita di essere rimeditato, laddove altri Paesi (per tutti, la Francia) per ratificare il Trattato di Maastricht fecero ricorso al referendum, in Italia si procedette con legge ordinaria, nonostante il formidabile impatto modificativo sulle strutture costituzionali, che aveva indotto un nostro insigne giurista, Paolo Barile, a suggerire il ricorso — in sede di esecuzione — alla legge costituzionale.

Aveva quindi ragione chi, in sede di esame parlamentare della legge di indizione del referendum, esprimeva motivate perplessità su un’iniziativa che rischiava di essere e che in sostanza fu di “spoliazione politica”. 

E vale la pena di segnalare, per la particolare lucidità, almeno gli interventi di Silvano Labriola e di Giulio Andreotti.

Il primo mise in guardia dai pericoli — tanto politici, quanto giuridici — scaturenti dal ricorso ad una legge costituzionale per provvedere ad un’unica consultazione referendaria e dall’evocazione di un mandato costituente, rammentando che allora (come oggi, del resto) vi era “un importante gruppo di Stati (che ha un grande peso all’interno della CEE) che è assolutamente contrario a favorire, sia pure indirettamente, la base politica del processo di unificazione europea”. L’Italia, per il rilievo che assume nel “concerto di opinioni non dello stesso segno”, non avrebbe dovuto attestarsi “sotto la riga della tensione”, ma neppure “molto al di sopra di questa riga”: sarebbe stato quindi più prudente (e più realisticamente conforme agli auspici unificatori) percorrere la via della legge ordinaria, a suo avviso ammissibile e sufficiente per munire “di un buon passaporto politico il rappresentante italiano eletto al Parlamento europeo”. E d’altra parte — osservava ancora Labriola — “parlare di mandato costituente per trasformare un processo pattizio in un processo di autoproclamazione di uno Stato significa scherzare col fuoco, sia nel diritto interno sia nel diritto esterno”: l’enfasi si colora di pericoloso velleitarismo, quando si consideri che, ove, com’è poi accaduto, i parlamentari europei degli altri Paesi non avessero avuto pari mandato e, comunque, non avessero concordato nel proposito costituente, i nostri rappresentanti non avrebbero potuto fare alcunché. 

Andreotti, allora ministro degli Esteri, nel corso della sua audizione presso la Giunta degli affari della Comunità europee del Senato, affermò testualmente: “L’Italia rappresenta soltanto una frazione della CEE e l’iniziativa di cui oggi discutiamo risulterebbe priva di efficacia nei confronti degli altri Paesi della Comunità: essa potrebbe determinare sia la collocazione dell’Italia in una posizione isolata, sia il rinvio, in luogo dell’accelerazione, del processo di integrazione politica di cui le istituzioni comunitarie hanno bisogno. Perciò, fermo rimanendo l’impegno dell’Italia a battersi in tutte le forme possibili per favorire la crescita politica della Comunità e delle sue istituzioni rappresentative, non si può non manifestare ampia perplessità sull’iniziativa che, pienamente condivisibile nel significato e negli obiettivi, rischia in questo momento di essere o velleitaria o improduttiva”.

La “morale” che si trae dalla nostra storia recente suggerisce, quindi, molta prudenza nell’evocazione del referendum, proprio in nome della democrazia: come si è visto, l’assetto istituzionale consolidatosi negli anni che seguirono il 1989 è molto lontano dalle indicazioni del corpo elettorale, la cui volontà sembra essere stata usata soltanto per dare copertura (plebiscitaria) ad una rottura nella continuità dello Stato, ottenendo ex ante un discarico di responsabilità a favore della classe politica.

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