Tra le cose più divertenti che sono uscite dal voto sul Brexit di dieci giorni fa vanno messe senz’altro le considerazioni fioccate sui giornali, da parte di esperti più o meno autorevoli, sull’opportunità di ammettere i cittadini a votare su cose tanto importanti e complesse come possono essere le questioni circa la permanenza di uno stato all’interno dell’Unione. E, a seguire, sul fatto che in Italia si possa o meno percorrere la strada inglese per “sfiduciare” l’Unione come hanno appena fatto gli elettori inglesi.
I più colti hanno rammentato, con qualche sospiro di sollievo, che in Italia una cosa del genere non sarebbe mai possibile, dato che l’articolo 75 della Costituzione esclude consultazioni popolari sulle leggi di ratifica dei trattati.
I più colti ancora — o forse solo quelli meno smemorati — hanno rammentato che nell’anno di grazia 1989 i cittadini sono andati a votare un referendum straordinario — un referendum d’indirizzo, si diceva ai tempi — sul conferimento di un “mandato costituente” al Parlamento europeo per la redazione di “un progetto di Costituzione europea da sottoporre alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità”.
Erano altri tempi, dolci e romantici, che i moderni europeisti confinano nel profondo del loro cuore e non osano rammentare, se non in privato. Tangentopoli era ancora al di là da venire. La Comunità europea era composta dai sei Paesi fondatori, cui si erano via via aggiunti Danimarca, Irlanda e Regno Unito nel 1973, la Grecia nel 1981 e Portogallo e Spagna nel 1986. Si era nella fase di mezzo tra Atto Unico e Maastricht. Maastricht, insomma, e i suoi parametri su deficit e indebitamento dovevano ancora arrivare, e la Germania attendeva ancora di riunificarsi, dopo la caduta del Muro. In Commissione si ragionava in Ecu e l’euro, per quanto approdo programmato del Bel Sogno, non esisteva ancora.
Esisteva, semmai, il secondo Sme, dal quale saremmo usciti, con l’Inghilterra, nel 1992, ai tempi del Governo Amato e della crisi valutaria gestita così bene da quel C.A. Ciampi, che sarebbe poi divenuto, per questo ed altro, presidente della Repubblica.
Certo, erano gli anni della decadenza del Pentapartito: anni in cui si costruiva quel debito pubblico che, ci avrebbero poi insegnato gli Alfieri del Bel Sogno, avrebbe avvelenato la vita delle generazioni future. In realtà, a quei tempi, i più accorti sapevano che, stanti certe cautele, uno Stato con una banca centrale degna di questo nome, com’era ai tempi la Banca d’Italia, non poteva fallire per definizione. E sapevano anche che il debito pubblico era fondamentalmente un’enorme partita di giro tra lo Stato e il sistema bancario: un sistema bancario al cui centro stavano però le banche d’interesse nazionale, e cioè Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana e Banco di Roma in mano all’Iri, e quindi agli italiani, fin dal 1936.
Non si pensava che, con l’arrivo di euro e Bce, quella gigantesca partita di giro si sarebbe trasformata, dall’oggi al domani, nel debito privato di una collettività priva di una sua moneta e di una sua politica monetaria. Certo, ci dicono oggi, tutto era corrotto, inefficiente e prossimo al collasso. Però, chissà perché, allora l’Italia era la quinta o la sesta potenza industriale, anche se doveva questa sua posizione alla presenza di un’industria pubblica — si dice oggi — clientelare e politicizzata, che doveva essere smantellata in nome del mercato.
Nel giugno del 1989, quando si tenne quel referendum, l’Iri era ancora sotto la guida di quel Romano Prodi che poi sarebbe divenuto presidente del Consiglio e presidente della Commissione. L’Iri sarebbe stata trasformata in società per azioni nel 1992 e poi svenduta sul mercato al mercato, e però nel nome del mercato. Il tutto in esecuzione dell’accordo Andreatta-Van Miert, di cui pochi pure hanno memoria, anche perché, vista come è andata, non è bene ricordarlo.
Insomma, nei racconti degli Alfieri del Bel Sogno, tutto cospirava per il peggio. Eppure il referendum ebbe un’affluenza dell’81 per cento abbondante (quote stellari di una democrazia vera e funzionante) e l’88 per cento dei votanti era favorevole ad un progetto che appariva al tempo stesso futurista e seducente. Oggi, nel linguaggio delle istituzioni europee, si direbbe ambizioso e lungimirante. Gli italiani stavano bene ed erano ardentemente europeisti, convinti di star meglio. Avrebbero lavorato un giorno di meno e guadagnato come se avessero lavorato un giorno di più, ci diceva uno slogan che sarebbe uscito di lì a qualche anno. Sempre dalla bocca degli stessi.
Nel frattempo l’Ecu è stato sostituito dall’euro. Quella Costituzione europea per cui si votava nel 1989, dopo la tappa intermedia di Maastricht 1992, fu poi laboriosamente redatta, orgogliosamente presentata in Italia da Giuliano Amato nel 2004, e sonoramente bocciata in due referendum, che pure non è elegante ricordare, in Olanda e in Francia tra il maggio e il giugno del 2005. Al posto di quella strana Costituzione è arrivata, come massimo omaggio al valore del voto, una cosa praticamente identica, però chiamata Trattato di Lisbona e che ci si è ben guardati dal sottoporre ancora ad una qualche consultazione popolare. Quando è stato fatto, come in Irlanda nel 2008, sappiamo com’è andata a finire: si è dovuto fare un secondo referendum l’anno dopo per consentire l’entrata in vigore del Trattato, che altrimenti avrebbe fatto la fine della benemerita Costituzione europea tenuta a battesimo da Amato. Giacché sembra che le istituzioni europee qualche problema con i referendum ce l’abbiano. Come dovrebbe averci ricordato la magica notte inglese di San Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno, appena trascorsa.
Alla luce di tutto questo, non si capisce perché ci si affanni tanto a ricordare che l’articolo 75, comma 2 della Costituzione vieta i referendum sui trattati internazionali. In astratto, come nel 1989 si è fatto un referendum sulla Costituzione europea, si potrebbe oggi, nello stesso modo, fare un referendum di segno uguale e contrario a quello di trent’anni fa.
Ma è proprio qui che cominciano i problemi. Perché è chiaro che un referendum del genere, non essendo previsto dalla Costituzione, dovrebbe essere indetto, come lo è stato quello del 1989, con una legge costituzionale di deroga e un apposito voto del Parlamento. Ed essendo chiaro che una legge costituzionale del genere oggi non potrebbe mai essere approvata con i due terzi dei voti (e di quale parlamento? quello che c’è o quello che verrà?), come fu quella del 1989, è altrettanto chiaro che questa legge potrebbe giungere a compimento solo con una approvazione a maggioranza assoluta. A cui, in punta di articolo 138 della Costituzione, non potrebbe non seguire un referendum approvativo, richiesto dalle forze ancora schierate a difesa del Sogno europeo. Un referendum, per inciso, del tutto identico a quello che prima o poi andremo a votare tra ottobre e novembre (le date, oggi, chissà perché, non sono più certe).
Insomma, per farla breve, ciò che i fautori dell’Italexit non ci dicono è che, per votare su Europa, euro o qualunque altra cosa inerisca i rapporti tra ciò che resta della Repubblica Italiana e quel qualcosa che, per comodità, chiamiamo Unione Europea, si dovrebbe fare prima un referendum (approvativo) per poi votare in un successivo referendum (consultivo) sull’Europa. Un referendum sul referendum, per capirci. Il che, diciamolo, ha qualcosa di deliziosamente divertente e surreale e ci dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che Flaiano è stato un grande pensatore politico ed è, assieme a Ionesco e Jarry, uno dei Padri non riconosciuti dell’Unione. Niente a che vedere con Spinelli, Monnet e Premi Paneuropa vari.
Per non parlare poi del fatto, un tantino più serio, che il simpatico esempio della Grecia di luglio 2015 sconsiglia vivamente ad uno Stato aderente all’Unione di indire consultazioni del tipo di quella britannica senza avere in tasca una moneta governata da una banca centrale ancora una volta degna di questo nome. Le riprese televisive degli sportelli automatici di Atene ai tempi della Troika stanno lì a dimostrarcelo. E possiamo solo immaginare le posizioni che sarebbero assunte, in Italia, del sistema bancario e dai suoi rappresentanti, nel momento in cui fossero posti sotto garbato ricatto dalla Bce e dai soliti mercati che attendono di essere rassicurati.
Insomma, non c’è bisogno di ricordare agli italiani che i referendum sull’Europa non si possono fare perché toccano problemi che i singoli cittadini non possono capire, come si è fatto, nell’ultima settimana, dai soliti Alfieri del Bel Sogno: Alfieri che, oggi come ieri, ci propongono il solito armamentario di conflitti con le generazioni future (conflitto con chi, se le generazioni sono future?), Sogno europeo (lo stiamo vedendo all’opera), pace in pericolo (come se paesi integrati nei comandi Nato potessero farsi guerre diverse dalla guerra economica che stiamo attraversando). E via maramaldeggiando in libertà. Gli inglesi che se ne vogliono uscire o sono yokels abbruttiti dalla birra e dall’ignoranza o vecchi nostalgici di una Rule Britannia imperiale che hanno votato contro le generazioni future. Gli inglesi colti e raffinati, quelli intelligenti, ricchi e cosmopoliti, avrebbero votato per restare nel sogno europeo.
In realtà, ad usare questi argomenti si rischia solo di far capire alla gente ciò che ci si è sforzati per anni di non farle capire. E cioè che l’Unione Europea è un progetto raffinatissimo, fatto apposta per decostruire le costituzioni nazionali ed aggirare i normali meccanismi di elaborazione democratica della decisione politica. Ed è, per questo, una struttura che, della democrazia, ha una nozione che si riduce, nel migliore dei casi, al momento dell’investitura degli esecutivi nazionali. Fermo restando che, poi, agli esecutivi tocca eseguire ed attuare, nel modo più veloce ed efficiente possibile, ciò che dall’Europa viene chiesto loro, attraverso il vincolo di bilancio.
Insomma, il deficit democratico non è un incidente di percorso del progetto europeo. Ne è, stando ai fatti, il cuore vivo e pulsante. L’Unione Europea è, essenzialmente, un’arte di governo: una governamentalità, che di una attività di governo produce gli effetti, senza che ci sia un governo. Ed è per questo che, con l’Europa, abbiamo ridotto diritto di voto e libertà politiche ad un guscio vuoto, che, chissà perché, possono andare in una sola direzione. Che è poi la direzione di quel pilota automatico di cui parlava M. Draghi quando spiegava, sempre ai mercati, la situazione italiana nel marzo 2013. Nell’Europa dei diritti e delle Carte le liberà politiche e il diritto di voto sono soltanto un cortese omaggio al passato.
In cambio, come ci è stato detto di recente da uno degli Alfieri del Bel Sogno, abbiamo avuto “protezione dei consumatori, equilibrio di genere e tutela dell’ambiente”. Non si lamentassero quindi i cittadini inglesi del bene che ha fatto loro l’Europa.
Sono questi i motivi per cui, ad una settimana dal voto inglese, non sono stupito che nulla di serio sia successo. Non sono stupito che il Governo inglese si sia guardato dal notificare alla Commissione l’avvio della procedura di uscita dai Trattati. Né sono stupito che la Commissione o il Consiglio, a parte le dichiarazioni infuocate del giorno successivo a San Giovanni, abbiano fatto alcunché.
L’obiettivo del post-Brexit è quello di addormentare prima, e metabolizzare poi, il risultato referendario in un momento delicatissimo per la tenuta del Sogno. Da qui il fuoco di controbatteria dell’ultima settimana partito in Gran Bretagna: dalle petizioni farlocche, stile primarie del Pd, per ripetere il referendum, alle dichiarazioni della leader scozzese sulla secessione della Scozia. Dichiarazioni che non a caso sono state lasciate cadere nel niente, visto che se passa l’idea della secessione scozzese, Spagna e Belgio rischiano di diventare un ricordo del recente passato. E con le elezioni francesi e tedesche tra 10 mesi, e madame Le Pen e AfD in gran spolvero, c’è poco da stare allegri.
In realtà, per capire perché non stia succedendo niente, basta tenere presente che, dopo le dimissioni di Cameron, a novembre la Gran Bretagna dovrà votare ancora per scegliersi un primo ministro. E i Grandi Architetti d’Europa stanno già lavorando per trasformare le prossime elezioni politiche in Gran Bretagna in un match di ritorno della Notte di San Giovanni.
Che ne sarebbe del voto sul Brexit se a Westminster arrivasse una maggioranza filoeuropea, desiderosa di ammorbidire i toni, consapevole del ruolo del Regno Unito nella realizzazione del Sogno? E’ evidente che, in questo caso, ripartirebbero i discorsi sulla necessità di isolare quella parte povera ed ignorante di Inghilterra che sta a nord di Londra e che vuole continuare ad essere ciò che è sempre stata. E cioè una Nazione libera, che ha fatto due guerre difficili contro la Germania, vincendole entrambe, e che del Bel Sogno ha visto solo la parte peggiore.
I Grandi Architetti, diversamente dagli Alfieri del Bel Sogno, sanno benissimo che il vero problema di ogni referendum è sempre e solo la gestione politica del dopo.
Non dico che per gli Alfieri sarà troppo facile recuperare ed ammortizzare. Però di sicuro hanno tanti soldi, tanti mezzi e tante televisioni. E di sicuro ci stanno già provando. Come i maligni sussurrano ci abbiano provato in Austria con quelle migliaia di schede elettorali truccate.
In fondo è l’Europa a chiedergli di agire. E tanto dei referendum francese ed olandese del 2005 nessuno si ricorda più.
Avessi saputo come andava a finire avrei votato diversamente nel 1989. Adesso, finché ho memoria, posso solo ricordare i nomi di chi ci ha portato fin qui.