Si apre oggi il Meeting di Rimini con un ospite d’eccezione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che rivolgerà alla kermesse di Cl un messaggio sui 70 anni della nostra Repubblica. A questo tema è dedicata la mostra che la Fondazione per la Sussidiarietà ha allestito con la consulenza di un altro affezionato ospite del Meeting, l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Giurista, magistrato, politico, Violante terrà oggi a battesimo, insieme a Giorgio Vittadini, un ciclo di incontri dedicato ai valori fondanti della Repubblica italiana, dal titolo “L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016”. Violante aveva già anticipato il senso della mostra in un articolo pubblicato sabato scorso sul Corriere della Sera.
Presidente Violante, sul Corriere lei ha giustamente sottolineato la ricchezza culturale e politica della nostra Repubblica. Non crede che il rapporto originale con l’altro, ben presente ai nostri costituenti, sia smentito dalla storia degli ultimi 25 anni?
Al contrario, la storia degli ultimi 25 anni a mio avviso ne costituisce la conferma. La crisi di questo quarto di secolo appare inguaribile proprio perché i partiti hanno smarrito il dovere di riconoscere l’altro e si fanno propugnatori di uno scontro senza confini e senza regole. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta maturano quattro eventi che metteranno in ginocchio il sistema politico nato nel biennio 1946-1948: la fine del bipolarismo internazionale (1989), il Trattato di Maastricht (1991), Tangentopoli (1992), il referendum per il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario (1993).
E di fronte a queste novità?
Di fronte a queste novità che segnavano un cambiamento di epoca i partiti politici tradizionali, o i loro eredi, non hanno avuto la forza e la capacità di dialogare con l’avversario per ricostruire su basi nuove il sistema politico italiano. I partiti nuovi, Forza Italia e Lega, ritennero che attribuire agli altri partiti la colpa della crisi fosse il modo migliore per conquistare il consenso popolare. Cessò il confronto costruttivo. Lo scontro senza regole, tranne pochissimi momenti, ha caratterizzato tutti questi ultimi anni. Il Paese non è andato avanti perché i partiti non hanno avuto il coraggio del dialogo e del confronto.
Lei sul Corriere scrive che il cittadino ha il dovere di partecipare alla cosa pubblica. Giusto. Ma come può avvenire questo oggi? I vecchi partiti sono morti, il Pd pare anch’esso trasformarsi, assumendo una conduzione che ricorda a volte quella di Berlusconi. Altri tentano di fare a meno dei partiti, percorrendo la strada del web…
La crisi di credibilità dei partiti non può essere un alibi per il disimpegno. Ciascun cittadino ha una specifica responsabilità per il consolidamento della democrazia. La partecipazione politica democratica non può essere frutto di una imposizione o di una “chiamata alle armi”. Si fonda anche su scelte consapevoli dei singoli: volontà di informarsi, decisioni responsabili, capacità di costruire luoghi di aggregazione. Per esempio sto constatando che molti cittadini che sono orientati per il Sì o per il No nel referendum costituzionale, stanno costituendo spontaneamente centri di discussione e di confronto. I cittadini non sono pecore che vanno condotte da uno più o pastori verso determinati obiettivi.
C’è un’altra espressione che sembra morta: “classe dirigente”. Fino all’altro ieri si formavano nei partiti vecchia maniera, oggi non si sa. E l’alternativa sembra essere la cooptazione.
Non esiste democrazia senza una classe politica dirigente. La classe dirigente esercita una funzione di indirizzo nei confronti della società non solo con le norme ma soprattutto con i comportamenti. Sono i comportamenti che danno credibilità e la credibilità è una componente dell’autorevolezza. La cooptazione non è una risposta; è la conferma dell’oligarchia. Oggi c’è una straordinaria campagna in tutto l’Occidente contro le élites. Da Trump a Le Pen, dalla Lega ad Alternative für Deutschland, in tutti i paesi dell’Occidente c’è una componente più o meno forte che criminalizza le élites. E le élites non rispondono.
Invece?
Devono invece rispondere e correggere gli errori. Il loro silenzio è un danno per la democrazia. Bisogna distinguere, infine, la classe dirigente dall’oligarchia. L’oligarchia è un centro di potere esercitato da pochi che stanno insieme per partecipare a quel potere e che grazie a quel potere si impongono sulla comunità.
Non è la prima volta che lei pone l’accento sulle oligarchie autolegittimate, più o meno saltuariamente elette, che si insediano al potere. Però assicurano la “governabilità”. E la partecipazione? Va a farsi benedire?
Le oligarchie assicurano l’ordine attraverso la discriminazione. Ma non assicurano né l’unità del Paese né la stabilità dei governi. Per conservare il potere pretendono che i cittadini siano spettatori, non protagonisti; perciò non amano la partecipazione. Ma senza partecipazione la democrazia diventa un guscio vuoto. La democrazia non è e non deve essere una pura tecnica di governo; è un insieme di grandi valori di civiltà che vanno permanentemente alimentati e rinvigoriti.
Lei ha vissuto da protagonista una delle fasi più critiche della storia italiana, quella degli anni di piombo. Allora lo Stato e il suo patto — il riconoscimento dell’altro — hanno retto. Oggi non c’è nessun rischio simile, però il patto appare molto, molto più debole; diremmo che è un principio non più evidente. Che cosa si può fare?
Per l’immediato credo che il confronto sul referendum possa costituire una grande occasione di partecipazione e di confronto civile con l’altro. Potrebbe essere un momento importante di pedagogia politica per tutti. Chi ci crede dovrebbe essere il primo a muoversi in questa direzione.