“A fronteggiarsi non erano l’ideologia del mercato contro quella del comunismo, tout court. Cattolici e comunisti avevano idee profondamente diverse sull’assetto finale della società, ma le due culture erano improntate entrambe al solidarismo e al ruolo delle formazioni intermedie”. Spiega così, Giuliano Amato, politico, uomo di governo in anni cruciali, ora giudice costituzionale, il “miracolo” civile e politico che la costituente seppe realizzare nel ’46. Amato ne parlerà oggi al Meeting, incentrando la sua attenzione sulla cultura dell’epoca e di quella di oggi. “Oggi la tecnologia ha portato l’individuo addirittura alle colonne d’Ercole dove, come ha scritto Habermas, poteva recitare la parte di Dio”, ma non possiamo disporre arbitrariamente della vita e della morte: “o c’è una piattaforma etica collettiva oppure la società scompare”.



Giuliano Amato, nell’incontro di cui oggi sarà ospite e relatore la cultura del nostro paese viene associata al “genio” della repubblica. Qual è il suo pensiero in proposito?
Il tema che ho cercato di capire io per primo è in quale modo le culture, le tendenze culturali sviluppate dai nostri letterati, artisti e studiosi hanno accompagnato la vita degli italiani. Aiutandoli, con le loro chiavi interpretative della realtà, a capirla, per vivere e scegliere.



Può anticiparci qualcosa?
Una delle conclusioni alle quali sono arrivato è che l’avvio della repubblica è segnato da un contesto culturale che non si ripeterà nei decenni successivi. Un contesto nel quale le istituzioni sono sorrette da culture politiche forti, colte, capaci di disegnare un futuro improntato a principi e valori nuovi rispetto al passato e queste culture sono sintonizzate con quelle che prendono piede nelle arti. Al fianco della cultura della costituente c’è quella di film come “Ladri di biciclette” (Vittorio De Sica, 1948, ndr) e di “Umberto D.” (Vittorio De Sica, 1952, ndr). L’ispirazione è la stessa.



Un accostamento audace, non trova?
E invece no, se ci pensiamo bene. Nella cultura letteraria e cinematografica, dopo anni di fascismo, di guerra, di oppressione dell’uomo sull’uomo, di culto della morte e di disprezzo per la vita, c’è un nuovo bagno di realtà, dove la realtà non è più rappresentata da un’astrazione, ma si incarna nella dignità della persona. Ed ecco il vecchio pensionato di “Umberto D.”, e quel padre a cui rubano la bicicletta e la deve ritrovare per riavere la sua dignità.

Mentre alla costituente?
Questo accade mentre alla costituente si rovescia il segno della società futura rispetto a quella passata, all’insegna di quella cultura personalista, secondo la quale la persona con i suoi diritti inviolabili ed anche con i suoi doveri inderogabili di solidarietà sociale, viene prima dello stato. Che è il terreno su cui le maggiori culture, così diverse fra loro — la cattolica, la marxista — trovano il modo di incontrarsi.

Come fu possibile questo “miracolo” civile e politico?

Non solo, come tendiamo a dire oggi, per le virtù degli uomini di allora. Ma proprio perché a fronteggiarsi non erano l’ideologia del mercato contro quella del comunismo, tout court. Vi erano in effetti una cultura cattolica e una cultura di sinistra che avevano idee profondamente diverse sull’assetto finale della società, ma erano improntate entrambe al solidarismo e al ruolo delle formazioni intermedie. Fu questo a facilitare l’incontro.

Per questo, lei dice, l’incontro avvenne sul terreno dell’economia solidale?
Sì. Lo stesso che in Germania si chiamava economia sociale di mercato. La nostra repubblica nacque su questa base, e questo fu importante nell’avviare in modo fiducioso l’opera degli italiani.

Allora i partiti non facevano solo politica, trasmettevano anche una cultura. E oggi?
Tra allora e oggi la differenza è enorme. Basti pensare a cosa voleva dire in politica, ma non solo, “noi” e “loro”. Noi democristiani, noi comunisti, noi socialisti; loro erano, simmetricamente, quelli degli altri partiti. Quel “noi” era uno spaccato di società che andava da De Gasperi all’ultimo militante democristiano. E oggi? “Noi” indica quelli che sono fuori dal palazzo; “noi” cittadini che manteniamo i “loro” privilegi, i privilegi di quelli che stanno nel palazzo.

Siamo nell’antipolitica?
No, siamo nell’ambito dell’osservazione della realtà. Soltanto i movimenti nati dalla protesta contro i “loro” del palazzo stanno in qualche modo ricreando un “noi” che va dall’alto in basso. L’antipolitica non è un prodotto di importazione, è il frutto di una malattia interna della democrazia; ed è comunque espressiva di una reazione dell’organismo sociale alla malattia. E in un contesto non sano assume anch’essa caratteri patologici… ma nella mia relazione non andrò su questo.

Quali sono le grandi trasformazioni successive nel costume della nostra società?
Quella avvenuta dopo gli anni sessanta, che ha portato all’affermazione di giusti diritti individuali, in un contesto che per mille ragioni ha tuttavia fortemente sviluppato un’identità individualista e cancellato la solidarietà, e attraverso la tecnologia ha poi portato l’individuo addirittura alle colonne d’Ercole dove — come ha scritto Habermas — poteva recitare la parte di Dio, dando o negando la vita e la morte. E poi la seconda grande trasformazione è quella che vediamo sotto i nostri occhi, che ci ha portato a vivere una nuova Babele, in cui gli “altri” sono tra di noi.

Come la interrogano questi fenomeni, queste crisi?
Cos’ha aiutato gli italiani, mi sono chiesto, a farsi carico di trasformazioni così grandi da averli resi arbitri di destini che non sapevano neanche decifrare? la mia convinzione – e non solo la mia — è che la cultura letteraria e artistica, salvo eccezioni, ci abbia in realtà lasciati soli, e che ci abbiano dato molto più aiuto quei sociologi e filosofi, quegli scienziati, quei giuristi attraverso le corti, che si sono posti realmente davanti ai problemi che il nuovo tempo imponeva.

Cioè hanno letto meglio il presente.

Sì. Per capire questo piano inclinato verso una società in cui l’etica diventava questione dei singoli, dando luogo ad una Babele autodistruttiva mai vista prima, pensi all’importanza che ha avuto il dialogo tra due filosofi, peraltro non italiani, Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, nel 2004. Un turning point in cui dobbiamo soprattutto ad Habermas, che rappresentava in quel dialogo la parte laica, secolare, di convenire con Ratzinger che o c’è una piattaforma etica collettiva oppure la società scompare.

Il titolo del Meeting dice, perentoriamente, che l’altro è un bene per me. La cosa sorprendente è che oggi è necessario ridirselo.
E’ proprio questo il punto. Vede, da una lato siamo di fronte a domande, come quelle sulla vita, delle quali la generazione che ci ha preceduto non saprebbe nemmeno decifrare i termini. Dall’altro assistiamo a quella che papa Francesco chiama l’anestesia dell’assuefazione, per cui c’è l’iPad, c’è l’iPhone, c’è Skype, Instagram e allo stesso modo ci sono le tecnologie della vita e della morte. Si può tecnicamente fare? E allora facciamolo, perché no? Ma attenzione, se le domande sono nuove, per rispondere non occorre inventarsi una nuova cultura; la cultura è sempre quella della costituente, è sempre quella di “Ladri di biciclette”, quella della piattaforma comune di Habermas e Ratzinger. Un intellettuale liberale come Isaiah Berlin dice che il limite non è invalicabile perché lo decide qualcuno, ma perché l’esistenza dell’altro è incancellabile dalla nostra coscienza. Pensiamo di cancellarla e invece la ritroviamo.

L’altro è incancellabile, lei dice. Solo l’altro da noi, il nostro vicino, o anche l’altro con la A maiuscola?
Questo dipende da ciascuno; ciò che conta è che non faccia grande differenza nelle scelte comportamentali e nel rapporto che si instaura con l’altro. ma ciò che mi preme, e su cui concluderò, è il pensiero dell’apocalisse imminente provocata dallo scontro fra le diversità. no; non è così, non saremo travolti, perché c’è un mondo fatto da migliaia e migliaia di persone che questa cultura dell’altro la vivono e la sentono nelle loro esperienze. non parlo solo del tradizionale mondo del volontariato, pur importante, ma di una sensibilità giovanile che oggi è portata a identificarsi, per fortuna, non solo con il proprio io ma anche nell’altro. Tantissimi giovani, molto più che in un passato recente, sentono emozioni e vivono esperienze che li rendono capaci di gestire i rapporti con gli altri.

Lei ha visto più “repubbliche”. Abbiamo iniziato a numerarle, ma forse non siamo nemmeno d’accordo su quella in cui ci troviamo adesso. E’ la seconda o la terza?
Penso che abbiamo vissuto sempre in una stessa repubblica… Sono da questo punto di vista un incallito giurista che pensa che fino a quando i capisaldi di una costituzione rimangono quelli, una repubblica sempre quella è.

I capisaldi, appunto. Rimarranno quelli?

Qui il discorso diventerebbe ampio e non possiamo farlo in questa sede. Però devo dire che se guardo non al percorso degli apparati politico-istituzionali, ma all’interazione tra questi e la nostra vita collettiva, ritrovo i fili di cui parlavamo poc’anzi. E li vedo nelle decisioni che si trova ad affrontare la Corte costituzionale oggi, un lavoro di ricerca di equilibri e bilanciamenti, tra vecchie leggi e nuovi diritti, che potevano sembrare impossibili. E’ questa l’Italia che sta cambiando; e se guardo a questa Italia, vedo un cammino, e non un salto.

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