Settant’anni di Repubblica e un bilancio straordinariamente positivo. L’Italia di oggi è enormemente diversa da quella del 1946 contadina, povera, analfabeta. Guardare al passato mette anzitutto in evidenza che l’insoddisfazione odierna degli italiani non nasce da questa storia. E le difficoltà di oggi — che certamente non mancano — non sono sufficienti per spiegare una sfiducia nel futuro tanto diffusa. Dietro questa sfiducia si nasconde qualcosa di molto più profondo: il dubbio radicale che non convenga più scommettere sull’Italia. Meglio pensare al futuro individuale, cercare la propria strada attraverso una rete tendenzialmente senza confini, tentare il successo là dove si aprono possibilità, in Italia o ovunque.
Tutte le nazioni sono costruzioni storiche e se a un certo punto nascono là dove prima non c’erano, allo stesso modo in un altro momento possono morire e diventare solo un ricordo. Insomma, è possibile che l’Italia torni ad essere una “espressione geografica”. Del resto è una possibilità che, in altra forma, si propone oggi anche per l’Europa: se ad un certo punto prevarrà lo scetticismo anti-europeo, l’Unione europea non ci sarà più e cinquecento milioni di non-più-europei si disperderanno nel grande mare della globalizzazione. E c’è uno stretto legame tra queste due possibilità: o l’Italia e l’Europa avranno entrambe un futuro o periranno insieme, simul stabunt et simul cadent. Prima però di smantellare queste due grandi costruzioni storiche — come stiamo già facendo giorno per giorno, inconsapevolmente, attraverso tante piccole decisioni quotidiane di cui non capiamo l’importanza e le implicazioni — vale la pensa di chiedersi se è la scelta giusta.
La mostra e gli incontri dedicati quest’anno dal Meeting di Rimini ai settant’anni della Repubblica non costituiscono perciò una mera celebrazione. Sono il modo di chiedersi: vale ancora la pena di scommettere sull’Italia? In questo senso, rivisitare la storia del settantennio significa interrogarsi sul futuro. E parlare di “genio della Repubblica” vuol già dire dare una risposta implicita ma positiva. Ma poiché non è una risposta scontata, occorre anche fornire le motivazioni di questo azzardo e, soprattutto, affrontare le impegnative conseguenze che ne derivano.
C’è in particolare un’ obiezione di fondo cui occorre anzitutto rispondere. Perché un movimento ecclesiale come Comunione e liberazione si interessa del futuro dell’Italia? Don Julián Carrón ha detto molto bene: a Cl non servono né un nemico né il potere. Anzi, è stato ancora più preciso: le briciole del potere. Più in generale, che importa ai cattolici dell’Italia? Cattolicesimo vuol dire universalità e la Chiesa cattolica sopravviverebbe certamente alla scomparsa dell’Italia e allo smantellamento dell’Europa.
La storia però ci mostra che da molti secoli, anzi da millenni, la Chiesa si interessa all’Italia, non solo sotto il profilo religioso, ma anche politico. Nel VI secolo, papa Gregorio Magno divenne l’unico riferimento non solo religioso ma anche civile in una Roma dove il potere politico era sostanzialmente assente.
In precedenza Ambrogio rappresentò qualcosa di simile a Milano. Prima che scoppiasse il dissidio tra Chiesa e Stato nel 1861, la primavera italiana del 1848 fu animata da preti e credenti convinti sostenitori del disegno neoguelfo. Tra il 1943 e il 1945, il crollo del fascismo e il discredito della monarchia resero Pio XII l’unico riferimento vero per una nazione allo sbando. L’Italia post-bellica è rinata perché la Chiesa ha garantito per lei sul piano internazionale. E se il “genio della Repubblica” è stato l’incontro con l’altro, come appare evidente, non c’è dubbio che abbia avuto profonde radici cristiane. L’incontro con l’altro, infatti, o è disinteressato o non è, e solo nel Vangelo si legge: “Amate i vostri nemici”. Può sembrare strano accostare il Vangelo alla storia della Repubblica che, come tante altre vicende politico-statuali coeve, è stata anzitutto storia di lotta per il potere tra diversi leaders o partiti o di forti interessi economici o di violenti conflitti sociali, eccetera. Nel caso italiano è stata anche storia di terrorismo, di corruzione, di mafia e di razzismo.
Insomma, molto spesso è stata una storia modesta o peggio fatta da uomini e donne mediocri o peggio. Ma qualunque costruzione politico-istituzionale ha bisogno di qualcosa di più profondo e di più sostanziale per nascere, per sopravvivere e per non morire. La Repubblica italiana non fa eccezione.
C’è poi una seconda questione scomoda da affrontare se si crede che valga la pena di dare un futuro all’Italia. Riguarda la parabola di questo settantennio, che è stata sorretta da un comune slancio ricostruttivo e sostanzialmente positiva fino agli anni settanta. Poi qualcosa ha smesso di funzionare, è iniziata una crisi che prima si è sviluppata silenziosamente, poi è esplosa fragorosamente nel ’92-’94 e infine si è trascinata per un ventennio. La seconda repubblica non è stata una stagione felice, ma già prima qualcosa aveva smesso di funzionare. Sui giovani di oggi pesa un fardello che non sono stati certo loro a creare, ma di cui si devono assumere la responsabilità. Le ferite della storia possono essere guarite solo dalla carità e la virtù dell’autocritica è spesso necessaria. Da molto tempo i cattolici sono ai margini della politica e fin dagli anni settanta hanno vissuto al loro interno dure contrapposizioni. Citando don Giussani, don Carrón ha messo bene a fuoco il problema di molti di loro in quegli anni: abbiamo “accettato lo stesso campo di gioco di coloro che ci criticavano” e “alla fine siamo stati una presenza reattiva quando avremmo dovuto essere una presenza originale”.