In questa fase della stagione politica il confronto politico-scientifico sulla riforma costituzionale fa registrare qualche significativa novità nell’esposizione delle ragioni, rispettivamente, a sostegno o contro. In particolare, tali ragioni tendono ad assumere, nelle argomentazioni che vi sottendono, una più chiara identità evidenziando in modo più netto la dimensione propria ed esclusiva dell’interesse politico; che esula, per definizione, da un apprezzamento puramente tecnico del nuovo testo normativo.
La svolta, nel confronto, è che ormai la ragione politica preminente — che in un ordinamento democratico-parlamentare tende ad identificarsi, naturalmente, con quella di una maggioranza di governo — si basa essenzialmente su argomentazioni che trascurano, in buona sostanza, ogni valutazione tecnica della riforma, fondandosi invece sulla cura prevalente (e ritenuta preminente) di interessi politici nazionali, quali, ad esempio, l’esigenza primaria di mantenere un governo al Paese in questo difficile momento internazionale; o anche l’opportunità di non minare la credibilità del Governo impegnato nel rilancio dell’economia nazionale e nell’alleggerimento della pressione fiscale (e anche nella ricostruzione post-terremoto?); o, infine, l’intento di scongiurare il “grosso rischio” di concorrere a minare ancor più, soprattutto in questo momento, la stabilità dell’Unione europea e della moneta unica (come ha detto Joseph Stiglitz).
Si tratta, in verità, di ragioni poco o punto plausibili, che lasciano percepire, quanto meno, un crescente disagio della maggioranza, per un verso a sostenere in modo compatto e convinto il disegno riformatore come idoneo e funzionale agli obiettivi che esso intenderebbe realizzare; per altro verso, a rischiare di abbandonare il Governo del paese in conseguenza di un esito referendario non favorevole alla riforma.
In ogni caso, le citate motivazioni risultano, come è evidente, di scarsa o nessuna pertinenza alla sfera della valutazione normativo-istituzionale sui contenuti della riforma; esse — non si sa quanto consapevolmente — finiscono per accentuare lo spessore politico assegnato al referendum costituzionale dallo stesso presidente del Consiglio nel momento in cui — in un’epoca di maggiore euforia politica — ebbe ad ammettere e dichiarare coram populo la dipendenza dell’esecutivo dall’esito referendario.
Ma pur in questa girandola di ammissioni e smentite, di linguaggi e narrazioni, l’elettore sembra ora riconoscere più distintamente la peculiarità di un discorso politico che tende ad eludere ogni serio confronto scientifico sulle lacune strutturali di questa riforma e a valorizzarne piuttosto le conseguenze favorevoli per questa maggioranza di governo.
L’elettore comprende bene, al di là delle notevoli incertezze ed ambiguità che la riforma costituzionale presenta, le quali finirebbero verosimilmente per non favorire affatto l’auspicata efficienza organizzativa (ed a tanto, non basta certo proclamare come un evento storico il superamento del bicameralismo perfetto…) che la decisione referendaria di approvare la riforma rappresenterebbe primariamente un risultato politico importante per la tenuta di questo Governo e di questa maggioranza. Ciò anche dopo le ultime dichiarazioni del presidente del Consiglio mirate a “rassicurare” tutti sulla continuità (almeno fino al 2018) dell’azione di Governo a prescindere dall’esito referendario.
La fase del confronto sul referendum costituzionale si presenta dunque di grande interesse e carica di suggestioni politiche. Per quanto le ultime esternazioni del presidente del Consiglio e di altri esponenti del Governo e della maggioranza parlamentare siano orientate ad emancipare dalle conseguenze di tale consultazione l’azione politica di maggioranza, i toni sostanziali e generalmente percepiti nella contesto sociale sono, per quest’ultima, quelli propri di un redde rationem: se non passa il referendum il Governo ne uscirebbe minato nella credibilità e nella stessa forza reale di legittimazione, visto che ha sostenuto e sostiene in ogni modo e con ogni mezzo la riforma. E’ possibile allora che il dibattito parlamentare conseguente al voto potrebbe avere esiti sorprendenti (in senso negativo) per lo stesso esecutivo, incitando all’apertura di una nuova fase politico-istituzionale.
Per giungere a ciò, è quanto mai opportuno, nondimeno, che le ragioni del No alla riforma si manifestino sempre in modo chiaro ed evidente, comprensibili ad ogni cittadino-elettore ben oltre ogni tecnicismo di linguaggio e valutazione, lasciando così emergere una generale consapevolezza che le riforme istituzionali e costituzionali soggiacciono alla condizione procedurale del “velo dell’ignoranza” (Rawls) per essere ispirate ad una razionalità quanto più possibile obiettiva e super partes, che nulla ha a che fare con le ragioni pratiche di una maggioranza politica contingente e con queste, perciò, non può essere confusa o, peggio ancora, identificarsi.