Salvini alla Fedro. L’irresistibile ascesa del leader della Lega, passato a impugnare le redini del Carroccio dopo la rovinosa caduta di Bossi, rischia di ricalcare il copione della celebre favola della rana e del bue. Perché “l’altro Matteo”, cavalcando la protesta contro il Matteo vero, Renzi, ha sì gonfiato i consensi di un partito in vistosa crisi dopo la defenestrazione del suo Capo storico. Ma potrebbe portarlo a un ben poco lieto fine personale: perché all’interno dello schieramento padano sta montando un progressivo dissenso nei confronti della spregiudicata linea da lui adottata. E che verte su un punto di fondo: storicamente, la Lega è nata per dare voce agli interessi del Nord, e per impugnare la bandiera del federalismo. Dopo la parentesi della secessione cavalcata dal 1996 al 2000, Bossi ha percorso decisamente la strada dell’intesa nell’area moderata, riannodando i fili con Berlusconi. E così facendo ha portato i suoi al governo del Paese, con la possibilità concreta di realizzare il programma originario leghista.
Il problema è che non ci è riuscito: il guerriero di Gemonio ha finito per accodarsi al Cavaliere di Arcore, assecondando le sue disinvolte scelte personali, senza riuscire a imporre nessuna delle priorità che aveva nella propria agenda. Se ha chiuso ingloriosamente la sua lunga leadership padana, è stato certo anche per le ben poco edificanti vicende familiari e del cerchio magico in cui si è lasciato imprigionare; ma è successo anche e soprattutto perché l’elettorato moderato che aveva contribuito in misura massiccia alla crescita dei suoi consensi si è sentito tradito, e gli ha girato le spalle.
Ora Salvini ha sicuramente recuperato adesioni, riportando la Lega a una percentuale a doppia cifra; ma l’ha fatto pescando nel serbatoio del malumore e della protesta fine a se stessa, in definitiva dell’area anti-sistema, dove peraltro deve affrontare la concorrenza grillina, ben più consistente. Dunque, quel patrimonio di voti non è spendibile politicamente, e più di tanto non può crescere: sul Carroccio sale chi vuole andare a urlare sotto le finestre del Palazzo, non chi vuole entrarci dentro per cambiare le cose.
Oltretutto, la svolta salviniana è stata fatta accodandosi agli umori populisti europei che vanno dalla Le Pen in Francia a Farage in Gran Bretagna, ai movimenti analoghi spuntati in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea. Ed è avvenuta dall’alto, senza alcuna verifica congressuale. Vero è che anche Bossi di congressi ne ha tenuti pochi, e solo per ratificare le proprie scelte; ma tra lui e il suo successore c’è una bella differenza in termini di carisma, e non soltanto. Così, in vista del prossimo congresso che si terrà tra qualche mese, all’interno del partito si verificano movimenti per ora sommersi, ma tutt’altro che episodici.



Significativa la recente uscita pubblica di Maroni che ha ribadito il valore della scelta di campo moderata, ricostruendo l’unità del centrodestra, in antitesi alla linea dura di Salvini. Certo, il governatore della Lombardia si è ben guardato dal mettere in discussione la leadership del segretario; ma sarebbe stato un pivellino se l’avesse fatto adesso. Né può dimenticare il precedente di metà anni Novanta, quando per aver contestato la scelta di Bossi di rompere con Berlusconi si trovò a un passo dalla cacciata.
Di fatto, si sta saldando una linea che vede accomunati i tre governatori del nord, Maroni e Zaia per la Lega, Toti per Forza Italia: tutti e tre interessati a riproporre a livello nazionale l’intesa di centrodestra che li sorregge nelle rispettive regioni. In una delle quali, il Veneto, pochi giorni fa anche il presidente del Consiglio Ciambetti ha difeso pubblicamente la causa dell’unità dell’area moderata. D’altra parte, questo blocco che si sta saldando vuole anche fare da contrappeso alla novità che sta maturando in Forza Italia con il progetto gestito da Parisi: stare acriticamente con Salvini significherebbe scavare un fossato, e di fatto rinforzare l’azione dello stesso Parisi, che si troverebbe a gestire il blocco moderato in regime di virtuale monopolio. L’impegno referendario d’autunno sarà la chiave di volta: comunque vada a finire, il fronte che non condivide la linea salviniana uscirà allo scoperto. Senza bisogno di rovesciare il segretario: “l’altro Matteo” potrà anche restare, ma senza pretendere di fare il monarca assoluto. Accontentandosi, semplicemente, di essere rana.

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