Il modo in cui il governo sta affrontando la tragedia del terremoto restituisce a Palazzo Chigi una certa affidabilità. Si è evitata la passerella dei ministri in cerca di visibilità mediatica e lo stesso premier si è esposto solo per quanto era doveroso. Nel complesso l’esecutivo sta riuscendo a presentarsi senza troppe voci in scena, ma essenzialmente con il volto sobrio e concreto del ministro Delrio che — anche grazie al suo passato di sindaco di Reggio Emilia — è riuscito a stabilire un rapporto fiduciario tra istituzioni e amministratori locali dei comuni devastati che, in questo momento, è elemento fondamentale.
Meno ineccepibile la nomina di Vasco Errani a commissario della ricostruzione. Lo è stato per il terremoto dell’Emilia in quanto presidente della Regione dell’epoca. E’ certamente una persona da risarcire in quanto è stato defenestrato da un’inchiesta che si è conclusa con l’assoluzione. Ma oggi Errani è un esponente di rilievo del Pd che si agita. La nomina sembra un espediente per tacitarlo, chiudere un fronte interno al Pd e, al tempo stesso, mettere un marchio di partito sulla ricostruzione. Per una simile emergenza nazionale sarebbe stato meglio scegliere non un uomo di partito che minaccia di dar noie al segretario-premier.
Certamente a rendere meno inquieto l’immediato futuro di Matteo Renzi c’è anche la cosiddetta “spersonalizzazione” del referendum costituzionale. Il No appare così sempre più “voto inutile” (come spallata al governo) in quanto — con il Quirinale alle spalle — Palazzo Chigi può assicurare che, quale che sia l’esito del voto di novembre, l’inquilino non cambia fino al 2018. La campagna per il Sì si prospetta così vincente — secondo l’indicazione data dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano — se Palazzo Chigi va in secondo piano.
Passando però dall’investitura plebiscitaria al muro di gomma, c’è l’ammissione da parte di Matteo Renzi di una criticità. “Gufi”, “lanciafiamme” e “elezioni anticipate” sono infatti parole dismesse dalle veline di Palazzo Chigi e il Rottamatore ricerca ora l’appoggio di Romano Prodi. Cresce intanto la sovrintendenza del Quirinale con Sergio Mattarella che sibila: “Nessuno può seriamente pensare di farcela da solo. Allargare le divisioni ci rende tutti più deboli”.
La gestione del terremoto è quindi un dato molto positivo, ma le criticità ugualmente incalzano. Il rapporto con Bruxelles rimane il punto debole. Immigrati, terrorismo, guerre e crisi economica hanno lì uno snodo decisivo e la messa in scena mediatica non è un esorcismo.
Il vertice di Ventotene è stato infatti un sostanziale fallimento. Nessun comunicato congiunto. A bordo della “Garibaldi” Hollande, Merkel e Renzi hanno fatto tre discorsetti che certo non passeranno alla storia. 



Due sono i dati negativi del vertice di Ventotene. Il primo riguarda la cristallizzazione della leadership della Merkel. Hollande e Renzi sono apparsi come i suoi “vice”: pendevano dalle sue labbra per sapere come le loro leggi finanziarie sarebbero state giudicate e non hanno aperto bocca per contrastare la Merkel sulla Brexit. Hanno cioè accettato di valorizzare il vertice — peraltro formalmente informale — di Bratislava dove la Merkel a metà settembre vuole smentire e esautorare Commissione e Parlamento europei. Se a Bruxelles gli organismi comunitari avevano deciso “tempi brevi” per la Brexit, ora al Consiglio d’Europa di Bratislava la Merkel vuol far ratificare l’intesa raggiunta a quattr’occhi con Theresa May per “tempi lunghi” per salvaguardare il principale importatore di prodotti tedeschi. Hollande e Renzi hanno fatto finta di non saperlo.
Più in generale Hollande, Renzi e Merkel non hanno detto una parola sul perché l’antieuropeismo dal 2014 non sia diminuito, ma cresciuto. Anatemi, non ragionamenti. Sono apparsi cioè come tre imbalsamati incapaci di reagire alle spinte disgregatrici che mettono a rischio l’integrazione europea.
Il secondo dato negativo è che sia Hollande sia Renzi, a bordo della “Garibaldi” hanno sanzionato il silenzio e l’assenza di un “contrappeso” socialista in seno agli organismi dell’Unione. Al silenzio dei socialisti francesi e italiani in verità va aggiunto anche quello della Spd tedesca: firmando a Berlino l’alleanza per il governo con i democristiani, i socialisti tedeschi in cambio di provvedimenti a favore dei loro sindacalisti davano carta bianca alla Merkel sulla politica europea. Il presidente del Parlamento europeo, il socialista tedesco Martin Schultz, appare “un uomo della Merkel” e il vertice del Partito socialista europeo che si è svolto questa settimana a Parigi ha ulteriormente evidenziato l’incapacità di concordare una presenza e una piattaforma alternativa alla cancelliera.  
E’ da valutare come questa silenziosa politica di quella che è stata la principale forza della sinistra europea non dia spazio nell’elettorato a movimenti antagonistici e antieuropeisti.
Certamente non si deve far carico a Renzi del vuoto del socialismo europeo in generale, ma esso grava sulle sue spalle e rende più problematica la capacità della ripresa di una “narrazione” di riforme. Dopo le elezioni amministrative il premier non è più stato in grado di mettere a fuoco una tabella di marcia. Il terremoto ha forse positivamente infranto il mondo di cartapesta in cui rischiava di arrotolarsi il governo.

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