Nell’attuale stagione di mutamento istituzionale — e di “riforme”, che tale mutamento intendono orientare, con qualche velleitarismo, verso interessi di parte (di ogni parte in campo: autori, emendatori, glossatori, oppositori “tattici”) — ritorna il tema della legge sui partiti. Ritorna lateralmente, nei rivoli secondari di un dibattito alluvionale, vorticoso, confuso. E largamente immemore delle radici della Repubblica; dunque inconsapevole dei tratti del sistema, delle sue ragioni, degli sbocchi — indesiderati — verso i quali può essere trascinato a causa di tale inconsapevolezza.
Leopoldo Elia, al quale si deve la più compiuta e lucida ricostruzione della nostra forma di governo come determinata nella sua struttura e nel suo funzionamento dai partiti e dalle loro connessioni, in uno scritto del 2009 individuava le cause che avevano impedito ai Costituenti di andare oltre il mero riferimento, riduttivo e non privo di ambiguità, al “metodo democratico” contenuto nel vigente articolo 49 della Costituzione: il timore delle sinistre innanzi allo spettro della “democrazia protetta”; le prudenze dei democristiani di fronte alla prospettiva della regolazione per legge dei partiti. Elia rilevava poi: “Nel 1992, caduto il muro di Berlino, diruta la conventio ad escludere, mi ero permesso di ricordare che erano maturate le condizioni per approvare una legge sui partiti che nel frattempo avevano ottenuto il finanziamento pubblico … Ma era come parlare nel deserto; frattanto … i partiti italiani avevano contratto pessime abitudini; si erano sdraiati sulla anomia persistente, chiedendo molto alle istituzioni e poco o nulla dando in cambio”.
Il sommarsi di fattori di crisi hanno marcato una distanza dallo scenario che Elia aveva di fronte ancora maggiore di quanto non derivi dal semplice calcolo del tempo trascorso. Ma la questione resta attualissima, a volerla riguardare con l’animo di chi ritiene che vada mantenuta alta la vigilanza sull’erosione cui può essere esposta la forma di Stato democratica. Anzi, si ripropone in termini nuovi un paradosso che ha segnato la genesi del nostro assetto costituzionale e che perdura: i mutamenti nella forma di governo (quelli che si sono già prodotti e quelli che si vorrebbe indurre) e nel sistema dei partiti rendono necessaria e improcrastinabile una legge sui partiti; ma questi stessi mutamenti disincentivano fortemente i partiti a produrla.
Oggi assistiamo a processi di trasformazione dei partiti, in parte compiuti in parte in contrastato svolgimento.
Il “partito personale” — che aveva convissuto per una fase non breve con il tradizionale “partito oligarchico” — viene riproposto come modello unico. Il tentativo del Partito democratico (Pd) di “autoprodurre” la propria democratizzazione, in specie generalizzando il metodo delle elezioni primarie, è fallito, a riprova del fatto che per un simile obiettivo occorrono regole eteronome, assistite da un efficace sistema di sanzioni.
Forza Italia — il primo “partito personale” consolidato in Italia — attraversa una crisi di leadership, che, nonostante le connotazioni peculiari, non è affatto anomala, se si guarda, in chiave comparata, ai tratti del modello. Che, uscendo da tale crisi, Forza Italia arretri verso il modello oligarchico o confermi i suoi tratti di origine non è prudente prevedere (ma la seconda ipotesi è più plausibile). Il Movimento 5 Stelle sta facendo coincidere il suo processo di istituzionalizzazione con il conseguimento del potere (quando la leadership del “Movimento” rifiutava le alleanze e dichiarava di volere governare in solitudine una volta conseguita la maggioranza assoluta, suscitava irrisione e profezie di fallimento e di estinzione; oggi le linee di sviluppo del sistema rendono realistico il disegno): si saprà più avanti quale modello di partito ne sortirà; per il momento è lecito classificare il M5s come un “partito personale a innesco carismatico”.
Ora, il “partito personale” è il partito “nella forma del leader”: il leader lo governa in forza di una rete autonoma di relazioni, dal quale trae risorse economiche e capitale sociale, mentre l’organizzazione tradizionale è ridotta ad apparato servente, di trasmissione del comando. Un simile partito è congruente con un assetto della forma di governo connotato dalla concentrazione e dall’unidimensionalità del potere: in un tale “ambiente istituzionale” può consolidarsi e prosperare.
Che sia un “partito personale” (e che aspira a consolidarsi come tale) a guidare i processi di riforma ne spiega dunque il segno.
Il progetto di revisione non tocca le disposizioni costituzionali specificamente riguardanti la forma di governo, se non sopprimendo, per stretta consequenzialità alla scelta di differenziare il bicameralismo, i riferimenti al Senato negli articoli 94 e 96. Resta invece fermo l’impianto normativo, inclusi i meccanismi di “razionalizzazione” dei quali si è sempre rilevata la debolezza.
Il mutamento della forma di governo al quale ci si orienta — che è considerevole — viene perseguito per altra via: intervenendo sui “fattori esterni condizionanti” e sugli elementi strutturali derivanti dai partiti e dalle connessioni di essi in sistema. Lo strumento attraverso il quale tale intervento si compie è nella legislazione elettorale: quella già introdotta ma non ancora messa in opera, riguardante la Camera dei deputati, congruente con la forma di governo che si intende realizzare; quella da introdurre per il nuovo Senato, della quale sono definiti, genericamente e piuttosto ambiguamente, i contorni con la delibera legislativa di revisione. Entrambe le formule elettorali — specie quella per la Camera, con la quale soltanto è previsto che il Governo debba instaurare e mantenere la relazione fiduciaria — sono destinate a determinare il modo d’essere del fattore partitico, ma anche a vedere determinata da questo la loro vicenda applicativa, dunque a incidere su struttura e funzionamento della forma di governo.
La legge elettorale per la Camera dei deputati — 6 maggio 2015, n. 52 (cosiddetto Italicum) — ha ispirazione fortemente maggioritaria: grazie all’altissimo premio di maggioranza, in ragione della previsione di una soglia relativamente bassa per conseguirlo, all’eventuale ballottaggio tra le due liste più votate, con la preclusione di coalizioni, la competizione elettorale è fortemente personalizzata: il vincitore sarà il leader della lista prevalente, tanto più quando si debba accedere al secondo turno, trovandosi contrapposte due sole personalità. Ciò contribuisce ad assicurare al leader il dominio della propria lista, poiché dalla sua sorte dipendono le speranze di vittoria del partito cui la lista corrisponde e di affermazione dei singoli candidati in essa compresi. Dominio rafforzato dal fatto che il partito — più esattamente, il suo leader — decide sulla composizione delle liste e, in particolare, presceglie fino a cento eletti “sicuri”: i capilista nei collegi, che sono proclamati “dapprima”, cioè innanzi che si proceda a proclamare “i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze” (art. 1, lett. g, legge 52/2015). Fino a cento vuol dire una parte assai ragguardevole di eletti nella lista vincente; e anche tutti gli eletti nelle liste perdenti: v’è dunque un potente fattore di coesione intorno al leader di partito già nella fase preelettorale, e alla “fidelizzazione” a lui da parte degli eletti. Il leader vedrà rafforzato il suo dominio dalla possibilità di “modulare” l’universo dei capilista, attraverso la maggiore o minore estensione delle candidature plurime, cioè della presentazione — che la legge consente — di uno stesso candidato in più collegi.
Come si può constatare, si tratta di una formula elettorale congruente con i caratteri assunti oggi dal sistema dei partiti e perciò con i tratti da questo impressi alla forma di governo.
Il funzionamento a regime del modello così costruito si può prevedere: coincidenza tra leadership di partito e direzione del Governo, concentrazione del potere in tale punto di coincidenza, continuità tra esercizio del potere così concentrato e funzioni parlamentari.
L’effetto di concentrazione e di unidimensionalità è accentuato dalla depressione delle autonomie regionali, che deriverebbe dalla legge di revisione costituzionale prossimo oggetto del referendum.
Beninteso, dalla ricostruzione di questo scenario potenziale non è lecito trarre conclusioni apocalittiche.
Sono in gioco diverse concezioni della democrazia.
È ben noto che, nelle democrazie, si pone come decisivo un problema di efficienza: spinta oltre un certo grado, l’inefficienza della forma di governo mette a rischio la permanenza della forma di stato democratica. Ne ha dato prova l’esperienza storica, con la tragedia delle dittature europee, rese possibili dalla dissoluzione di ordinamenti di tipo democratico o in evoluzione verso un assetto democratico, minati al proprio interno da gravi deficit funzionali.
Ma le risposte possono essere diverse.
Può prevalere l'”investitura”: chi, messi in moto i meccanismi della dinamica rappresentativa (elezioni parlamentari, procedure di formazione del governo e di insediamento del suo capo), assurge al potere deve poterlo esercitare il più possibile al riparo da interferenze, da controlli, da limitazioni, ed essere valutato soltanto, o pressoché soltanto, alla scadenza elettorale.
Può prevalere l'”operazione”: chi assume funzioni di governo è sottoposto in permanenza all’azione di contropoteri e a efficaci controlli anche da parte di organi formati con modalità esterne al circuito della rappresentanza, contropoteri e controlli posti al riparo dalla sua influenza, ed è assoggettato alla partecipazione permanente dei governati.
Si tratta di modelli ideali, cui gli ordinamenti costituzionali concreti si orientano secondo una linea di tensione permanente tra le due possibilità. Ma, benché siano tendenziali, è tuttavia possibile stabilire a quale di essi ciascun assetto maggiormente corrisponda.
Le riforme attuate e proposte, costituzionali e ordinarie, tendono alla “democrazia di investitura”. Ai cittadini spetterà stabilire se essa sia il modello maggiormente desiderabile.
Resta però un fatto: la “democrazia di investitura” richiede — affinché non sia esposta alla regressione — severe forme di regolazione del potere, delle modalità attraverso le quali esso opera, dei suoi attori. E, nel nostro caso, gli attori sono i “partiti personali”.
Dunque una legge sui partiti è indispensabile. Una legge che ne regoli non solo il finanziamento, ma anche la vita democratica interna, i rapporti con i gruppi di pressione, che sia coordinata con le leggi elettorali, e che sia adeguatamente conformativa (la legge tedesca potrebbe essere un utile riferimento). Resta però da vedere se i partiti la vorranno, cioè se si assoggetteranno a passare da “formanti” del regime politico a “formati” per regola giuridica.