“Io sono un euroentusiasta, Antonio è un eurotiepido. Ma la cosa si spiega con la nostra differenza d’età”: così Carlo Azeglio Ciampi spiegava, e ridimensionava, l’asserito dissidio tra lui, divenuto presidente del Consiglio prima e ministro del Tesoro poi, e il suo successore alla guida della Banca d’Italia Antonio Fazio, che ha 15 anni di meno del presidente emerito scomparso ieri: “Io la guerra l’ho vissuta, Antonio l’ha sentita più che altro raccontare. Per questo io so dalla mia vita vissuta quanto sia importante l’unificazione europea, lui invece lo sa, ma dai libri”.
Sulla base di queste convinzioni, di questo fervido europeismo, Ciampi è stato non solo un “euroentusiasta”, ma anche il vero artefice dell’ingresso della lira nell’euro sin dalla sua prima costituzione e del superamento di quell’originaria ipotesi di un euro “a due velocità” che, secondo lui, avrebbe diviso l’Europa in Paesi di serie A e Paesi di serie B: come poi è comunque accaduto, ma per ragioni di forza maggiore.
In nome di quest’inderogabile esigenza di dar corso alla costruzione europea con l’Italia nella squadra dei primi, Ciampi è stato anche un fine teorico della salubrità – per noi italiani – del “vincolo esterno”, cioè di un fattore politico soverchiante, indipendente dalla nostra sovranità, capace di costringerci come Paese a comportamenti finanziari virtuosi. Sua l’immagine del “chiodo” che lo scalatore pianta nella roccia della parete per essere sicuro di non retrocedere più nel suo cammino, a meno di non restare rovinosamente appeso a un filo.
È insomma questo concetto di “vincolo esterno” che ha ispirato i pensieri profondi di tutti i leader politici italiani – con Ciampi Andreatta e Prodi, sicuramente – che accettarono i severi parametri di Maastricht e l’oneroso cambio lira-euro proprio per costringere, in qualche modo, il Paese a una disciplina – dettata dal di fuori dei suoi confini – molto più severa di quanto pensavano che gli italiani sarebbero mai stati disposti a imporsi (e rispettare) da soli: cioè in mancanza, appunto, vincoli esterni.
Ma la metafora di Ciampi – per un’ipotesi che lui poneva come estrema e che invece oggi si rivela drammaticamente vera – trovava nelle stesse conversazioni dell’ex presidente il rischio concreto di un’evoluzione perdente: quella di un Paese che poteva anche rimanere appunto attaccato a un filo, sospeso a mezz’aria, in una situazione miserevole, per non aver saputo utilizzare quel chiodo piantato nella roccia – l’adesione al Trattato di Maastricht – per proseguire nell’ascesa.
È appunto quel che oggi lamenta Matteo Renzi quando giustamente dichiara inattuale e inattuabile il “Fiscal compact”: ma il Fiscal compact è appunto quel chiodo, che oggi ancora ci inchioda agli obblighi firmati per quel nobile, entusiasta, benintenzionato ma velleitario patriottismo economico che vivemmo nella stagione europeista degli anni Novanta.
Ve la ricordate l’Eurotassa? La propose Prodi, e tutti la pagammo. E vi immaginate dove gli italiani manderebbero, oggi, il leader che la riproponesse?
Piantammo il chiodo, e adesso siamo sospesi sull’abisso. Un’Italia che fosse stata tutta a immagine e somiglianza di Carlo Azeglio Ciampi probabilmente si sarebbe tirata su, trovando la forza per far leva su quel chiodo. L’Italia vera è scivolata giù in basso quasi subito.