Ci sono tratti di schizofrenia in questa politica, sia quella italiana che quella europea. Non sono passate neppure tre settimane dal famoso vertice di Ventotene, con la visita di Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi sulla tomba dell’ispiratore dell’Europa unita, Altiero Spinelli. In quell’occasione si parlò di “fiori europei” e dalla portaerei Garibaldi arrivò un messaggio di forte slancio europeistico.



Renzi determinato, deciso nella conferenza stampa “unitaria” a tre, disse: “Molti pensavano che dopo la Brexit l’Europa fosse finita. Ma non è così. Noi vogliamo scrivere una pagina migliore”. Il premier italiano dettò la parola d’ordine: “Noi pensiamo che l’Europa non sia il problema ma la soluzione”. Anche il presidente più screditato della recente storia di Francia, François Hollande, assentì con parole pronunciate in tono grave, neanche si fosse trasformato in De Gaulle. Nel contempo Angela, la “casalinga” del Meclenburgo, ammiccò, suscitando solo qualche perplessità su alcuni passaggi economici.



Neppure tre settimane dopo, con il vertice di Bratislava, cambia tutto. Ritorna in modo quasi sfacciato la “superiorità” dell’asse franco-tedesco, che seppur giustificabile e anche comprensibile soprattutto sul piano storico, non piaceva neppure quando si stava lentamente costruendo l’Europa e l’euro non esisteva. Forse, per puro buongusto, sarebbe l’ora di “aggiornarlo”.

Tuttavia dopo il vertice di Bratislava quello che più stupisce e più stride sono i toni usati dai protagonisti, così differenti da quelli della conferenza stampa sulla portaerei Garibaldi.



Renzi, dopo essersi defilato — o essere stato “espulso” — dalla conferenza stampa a tre, quasi urla al Corriere della Sera: “L’austerity europea è un fallimento. Sono gli altri a violare le regole”. E non si ferma: “Nessuna rissa, semplicemente un’occasione persa. Bratislava doveva essere la svolta e invece è stata l’ennesima riunione finita a discutere le virgole di un documento che dice tutto e non dice nulla”. Il “superfluo” francese Hollande si allinea alla Cancelliera tedesca tremebonda, in attesa del risultato delle elezioni di Berlino: “Matteo deluso? Ma se l’agenda era concordata”. Tanto che Renzi ha firmato tutto, si fa notare perfidamente.

Questo è dunque lo “spettacolo politico” europeo alla vigilia della ripresa autunnale. Poi, con oggi, l’autunno arriva per davvero e bisognerà alzarsi presto e attendere notizie dai mercati e dalle anticipazioni sulla manovra italiana. Anzi, come si dice adesso, dal patto di stabilità. Di fronte a questi scodinzolamenti politici come si può avere il coraggio di prendersela con i populismi dilaganti? Ma non c’è proprio nessuno a comprendere che il populismo è in fondo il sintomo della malattia e dell’incapacità del sistema e dell’establishment che governa?

In questo momento storico, questo tipo di domanda se la dovrebbero porre in molti, al di qua e al di là dell’Atlantico. Soffermandoci sulla situazione italiana non è difficile ipotizzare mesi durissimi, di clima politico rovente e di uno spettacolo che ricorda un gioco al massacro generale. Sperando che le ripercussioni siano solo politiche e non sconfinino drammaticamente sul terreno sociale.

Renzi con i suoi sfoghi plateali, il suo nervosismo e i suoi toni dopo Bratislava, di fatto ammette di essere in palese difficoltà. Altro che flessibilità e rilancio degli investimenti sulla crescita! E non c’è nessun bluff convincente sul recupero degli euroscettici o qualche altro marchingegno dialettico per confondere le carte.

La nuova legge di stabilità sarà in perfetta continuità con la politica asfittica e inadeguata degli ultimi anni, con un’Italia che non cresce più, che non si vede come possa crescere con i parametri europei che deve rispettare e con l’ordocapitalismo algoritmico, che detta sempre legge, anche in Italia, nonostante i pasticci di Deutsche Bank, di Commerzbank, di Volkswagen e del surplus vergognoso accumulato dalla Germania in spregio di tutte le regole comunitarie.

Non vogliamo allarmare nessuno parlando di “gioco al massacro”, ma basta riassumere quello che negli ultimi dieci giorni è accaduto nei tre “poli” più consistenti della politica italiana.

Nel Pd si dice che si sta assistendo a un ritorno della partecipazione politica. Gli “osservatori” e gli “analisti” di questo Paese definiscono in questo modo le risse, ai superstiti Festival dell’Unità, che si consumano tra i supporter del Sì e del No sul referendum costituzionale. Basta guardare il “dibattito”, si fa per dire, tra Carlo Smuraglia e Matteo Renzi, tra Roberto Giachetti e Massimo D’Alema. Ma siamo sicuri che siano tutti dello stesso partito?

Alla fine la considerazione di fondo è che la gestione della riforma costituzionale e di quella elettorale sia stata fatta da Renzi e da Maria Elena Boschi con un scelta politica che tende a dividere non solo il Paese, ma anche il proprio partito. Ma più in generale si può dire che le condizioni generali del Paese, quelle economiche soprattutto, portino a una accentuazione continua delle divisioni e mai a un confronto anche serrato ma costruttivo.

L’alternativa a questa divisione interna al Pd, a questi sbandamenti del partito che eredita soprattutto i pasticci e le contraddizioni della sinistra italiana, poteva essere rappresentata persino dagli improvvisatori del Movimento 5 Stelle. Per un certo periodo lo hanno pensato anche al Dipartimento di Stato americano. Ma purtroppo anche la politica ha delle regole e dei tempi che vanno rispettati. Dopo il successo alle amministrative, sono emersi “vizi e difetti” all’interno del M5s che fanno rabbrividire. La Lombardi contro la Raggi. Il Di Battista contro il Di Maio. Il Pizzarotti che “vuole togliersi i sassolini dalle scarpe”. Sono giovani, è vero, cercano di studiare e imparare. Ci vuole tempo, è vero. Ma se l’Italia crescerà dello 0,5 anche nel 2017, non c’è molto tempo da perdere in apprendimento. Se bisogna aspettare il 2028 per ritornare ai livelli ante 2007, non si può aspettare la “crescita” dei pentastellati. Dobbiamo dire che ricordano Gigliola Cinquetti quando cantava una delle canzoni più melense della tradizione italiana, “Non ho l’età”. 

Infine c’è il centrodestra diviso a spicchi, con un leader ammalato e ottantenne, che si dev’essere stancato di una politica che, in fondo, non è mai stata il suo mestiere, nonostante quello che si racconta in giro. Dicono che stia emergendo l’ex manager, ora tecnico-politico Stefano Parisi, che però non riesce a convincere il vecchio quartier generale di Forza Italia e, nell’ambito del centrodestra antico, dovrebbe fare i conti con un leader leghista, Matteo Salvini che, ogni tanto, va “fuori di testa”.

Insomma, è uno spettacolo impressionante in tre atti.

Qualche sera fa, Giampaolo Pansa ha fatto quasi svenire la “mitica” signora Lilli Gruber, in una trasmissione televisiva, perché ha detto, papale-papale: “Questo mi sembra un paese perduto”. E ha aggiunto altre considerazioni che risparmiamo ai lettori. Speriamo che, come spesso gli è capitato, Pansa si sbagli. Ma essere ottimisti in questo periodo è veramente complicato.