Nel confronto pubblico che investe il tema della riforma costituzionale, il crinale delle ragioni politiche a sostegno del Sì si arricchisce ogni giorno di nuove suggestioni. A partire dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio, che hanno concorso di fatto ad imprimere una chiara torsione personalista alla campagna referendaria, per passare alla prefigurazione di un quadro di forte instabilità politico-istituzionale che si aprirebbe in conseguenza del prevalere delle ragioni del No — difficoltà di eleggere assemblee parlamentari con discipline elettorali diverse, perdita di credibilità dell’esecutivo impegnato nelle riforme e nella riduzione della pressione fiscale, eccetera — per giungere, infine, ai rischi che tale instabilità si propagherebbe anche al livello di Unione europea, la comunicazione politica rivela progressivamente i termini pratici della contesa, che si può agevolmente individuare in un confronto senza esclusione di colpi tra la governance esistente e le forze di opposizione, lasciando così sempre più sullo sfondo il tema del confronto sui contenuti della nuova legge costituzionale di riforma. Tali condizioni concorrono a radicalizzare la contesa distorcendola in un errato dualismo tra “detrattori” e “difensori” della Costituzione. 



Quanto succede, si potrebbe dire, esprime l’intrinseca virtù del metodo democratico e concorre a nutrire la libertà di coscienza politica individuale, garantita negli ordinamenti democratico-costituzionali. La dialettica politica rappresenta, allora, un termometro affidabile della vitalità di uno Stato democratico, salvo ricordarsi, però, che nel nostro caso il tutto si sta giocando sulla pelle della Costituzione, alla cui razionalità organizzativa si contrappone, ora, l’ irrazionalità della lotta per il potere, lotta fedele unicamente all’imperativo della vittoria (dell’una o dell’ altra delle forze in campo). 



Pertanto, il prezzo da pagare a questa irrazionalità è molto alto: è la perdita progressiva di quella forza inclusiva e unificante propria della Costituzione quale atto di identità di una comunità statale e volano dell’integrazione sociale. Tale forza non può legarsi a maggioranze politiche, ma promana dal riconoscimento generalizzato di un sistema di principi e valori di cui essa per prima si rende portatrice. Il venir meno di questa condizione comporterebbe, pertanto, un inaridimento del tessuto costituzionale democratico, la sua incapacità di assecondare ad una delle funzioni essenziali cui è preposto, vale a dire la riconduzione ad unità del molteplice e dell’individuale. 



Un corretto procedere sulla via delle riforme implica, allora, di regola, una deviazione dalle ordinarie dinamiche della dialettica democratico-parlamentare per avviare un dialogo aperto a tutte le forze vive del Paese, politiche e sociali, alla ricerca del più vasto consenso. La determinazione di soluzioni innovative largamente condivise non si mostra più, in questa prospettiva, come un’utopia, ma realizza il prodotto ultimo dell’applicazione di un metodo specifico della revisione costituzionale, ampiamente inclusivo e perciò legittimante.  

In questo contesto, l’esito referendario cela l’insidia di dare voce ad un processo di disconoscimento dell’identità della Costituzione antifascista del ’48, i cui valori rappresentano l’irrinunciabile caposaldo di ogni civiltà democratica, degradandola ad atto di parte che traccia un insuperabile spartiacque tra inclusi ed esclusi. Ad uscire irrimediabilmente dimezzata, come ognuno può ben intuire, è la stessa unità dello Stato.

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