E pensare che la riforma costituzionale, anche quando si è dovuti ricorrere al referendum, doveva essere quasi una marcia trionfale! Se si riguardano i giornali di un paio di anni fa, dopo che si era votato alle elezioni europee, l’idillio tra Matteo Renzi e gli italiani era nella fase del famoso “innamoramento”, descritto nel 1979 da Francesco Alberoni in un libro diventato famoso. Gli italiani si dichiararono, in quel “radioso maggio” del 2014, pronti a “mutare”, anche in campo politico, come lo stesso Alberoni prevedeva nel suo schema dei vari innamoramenti.



Peccato che questo “amore politico” si sia perso per strada, nel giro di un paio di anni, e alle amministrative del 2016, nel centrosinistra e nel Paese l’aria sia diventata progressivamente pesante, nervosa, concitata e anche isterica in alcuni casi.

Così, si possono vedere dibattiti televisivi sul referendum costituzionale del 4 dicembre che rasentano la rissa fisica. Tra il “guru” delle procure, Marco Travaglio, e il presidente del Consiglio, si è cominciato il dialogo con rispettosi “lei”, “prego”, “parli”, “mi ascolti” e si è finito con frasi del tipo: “Ma se la chiamavano ‘bomba’ fin da ragazzo!”. E un premier che rispondeva litigando con il giornalista in modo quasi scomposto e anche un poco sgangherato. Tra Massimo D’Alema e Roberto Giachetti, al Festival dell’Unità di Roma, sembrava di assistere a un derby all’Olimpico, tra pernacchie e ululati dalla platea, con una stretta finale di mano che sembrava una sfida da regolare al momento giusto.



La sensazione è che gli ultimi sessanta giorni di campagna referendaria saranno ancora più roventi e non sono escluse sorprese di ogni tipo. Resta il dato di fondo, che quella che doveva appunto essere una marcia trionfale, per Renzi si è trasformata in una sorta di “sfida infernale”, dal risultato incerto e quindi pericoloso, perché può mettere in uno stato di instabilità il governo e di riflesso il Paese.

Tutto questo inevitabilmente può preparare un dopo-referendum con uno scenario politico inedito. Facciamo qualche esempio.

Carlo De Benedetti ha messo le mani avanti con un’intervista al Corriere della Sera: voterà No, se non verrà cambiata la legge elettorale. In più, “consiglia” a Renzi di dimettersi in caso perda il Sì. A ben vedere è la risposta tipica della famosa “grande imprenditoria” italiana, cioè dei “capitani di sventura” che si prefigurano due posizioni nei momenti più delicati, tanto per non sbagliare: sto di qua, ma posso stare anche di là. Complimenti vivissimi, perché gli uomini di tale coraggio non si smentiscono mai.



Tuttavia l’intervista di De Benedetti coglie perfettamente il clima di nervosismo che esiste nell’attuale maggioranza di governo e che il premier vive. In fondo Renzi aveva personalizzato il referendum perché viveva quella fase di “innamoramento” e si illudeva di risolvere una grave crisi sociale, economica e politica. E’ stato superficiale. 

Ora, trovandosi in difficoltà, Renzi cerca di spersonalizzarlo questo referendum, ripetendolo in modo quasi ossessivo. Lo fa per scusarsi apertamente di un errore, perché capisce che non c’è più “amore” intorno a lui. Ma questo, secondo le leggi della politica, non lo favorisce affatto.

La realtà è, alla fine, che, tra personalizzazioni e spersonalizzazioni, questo stesso referendum appare, in questo contesto e nel suoi complesso, non tanto una disputa sulla riforma costituzionale, ma una sorta di battaglia qualunquista tra schieramenti che giocano una partita di carattere politico più che istituzionale. I fattori più importanti per la situazione che vivono gli italiani (la situazione economica e i rapporti con l’Europa) sembrano quasi mascherati, nascosti dalle domande del quesito referendario, che parlano principalmente del costo e del numero dei senatori da una parte e del pericolo di una perdita di rappresentatività democratica dall’altra. Tra le tante cose poco comprensibili e spesso inspiegabili.

In sostanza, a ben vedere, il referendum rischia di assumere quasi il carattere di un grande imbroglio. E questo va a incidere sulla disaffezione politica, sulla credibilità della politica e sulle stesse previsioni del risultato elettorale. La situazione è talmente paradossale che si va a votare su un quesito di riforma costituzionale e si parla principalmente di altro. Basta ascoltare attentamente quello che emerge dai dibattiti.

Nello stesso tempo, in questo equivoco un po’ qualunquista, si può vedere come Renzi cerchi di calibrare la legge di bilancio, tentando, con limitate risorse, di accontentare la maggioranza dell’elettorato per quanto gli è possibile. E, ultima svolta, nella strategia del leader, è la caccia aperta ai voti della destra, a quelli del vecchio centrodestra berlusconiano, che fa immaginare uno scenario politico completamente differente nel dopo referendum, qualunque sia il risultato.

Non si tratta solo del “ripescaggio” del Ponte sullo Stretto e di altre considerazioni e atteggiamenti di euroscetticismo, ma anche di una ricerca di scontro e confronto soprattutto con gli avversari a sinistra. Stasera Renzi se la vedrà in televisione contro Gustavo Zagrebelsky, dopo aver affrontato Travaglio.

In una lunga intervista rilasciata a Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, Renzi esordisce tranquillamente in questo modo: “Inutile girarci intorno. I voti di destra saranno decisivi al referendum. La sinistra, ormai, è in larghissima parte con noi, la questione vera è oggi la destra. E l’elettore di destra oggi si trova di fronte a due scelte: votare sul merito, non votare sul merito. Se la scelta diventa votare sul merito, vota sì”.

Ma allora Renzi, in questo modo, dà ragione a D’Alema, quando quest’ultimo afferma che il segretario del suo partito non fa altro che ripresentare il programma di Berlusconi. Lo spostamento al centro del nuovo Pd diventa una rincorsa a destra. 

Forse la questione non è così schematica, ma non c’è dubbio che il dopo referendum, se in questi due mesi non cambia la musica, riserverà grandi sorprese. Si può ipotizzare la rinascita di una “grande coalizione”, più ampia di quella attuale con il coinvolgimento della stessa vecchia Forza Italia? E’ un’ipotesi che fanno molti osservatori, ma che non appare del tutto convincente, perché l’impressione prevalente, secondo alcune fonti, è che l’ottantenne Berlusconi voglia soprattutto osservare come si consuma questa esperienza governativa, mettendo “in pista” a turno dei comprimari di leadership, che non vuole mollare a dispetto dell’età e della mutata situazione politica italiana rispetto alla sua famosa “discesa in campo”.

C’è invece la sensazione che, qualunque sia il risultato del referendum, piuttosto si regoleranno i conti a sinistra, con una nuova rottura, un congresso straordinario, un ripensamento generale di strategia e magari anche di identità.

Infine c’è la grande area grillina, che delude al Campidoglio di Roma, giorno dopo giorno, ma delude meno, per adesso, rispetto ai protagonisti della svolta degli ultimi venticinque anni di politica italiana sul piano nazionale. E’ una magra consolazione. A conti fatti, sono solo scenari carichi di turbamenti e di incertezze.