Dalle parti del Quirinale la preoccupazione cresce all’avvicinarsi del referendum costituzionale. Da mesi ormai Mattarella e i suoi collaboratori studiano con scrupolo tutti gli scenari possibili. E quelle che seguono con maggiore attenzione sono le mosse di Matteo Renzi. Il timore è quello di dover gestire una fase di instabilità acuta, giudicata esiziale per il paese, quello seguente a una possibile vittoria del No.
Nel percorso verso la consultazione popolare il premier è partito malissimo, personalizzando la sfida sino all’ennesimo potenza (“se perdo, lascio”). Le correzioni di rotta, più volte sollecitate, sono state apprezzate, ma potrebbero essere tardive. Il clima rovente è testimoniato dalla spaccatura nel Pd, è simboleggiato dal braccio di ferro con i partigiani dell’Anpi, e dalle contestazioni, ultima quella alla festa dell’Unità di Milano, per la madrina della riforma, il ministro Maria Elena Boschi, che pure è stata consigliata di non esagerare con le apparizioni pubbliche. Strafare, hanno suggerito gli spin doctors, potrebbe rivelarsi controproducente.
In calo sembrano poi essere le possibilità che sia l’economia a fornire a Renzi ed al suo governo il propellente necessario per superare l’ostacolo. L’Istat ha certificato la crescita zero nel secondo trimestre nel 2016, costringendo a correggere al ribasso le stime della crescita, ormai ben sotto l’1%. Davanti al Gotha del mondo dell’economia riunito nel tradizionale forum annuale di Cernobbio, Renzi ha però giurato che l’Italia va meglio, e che non serve un sondaggio per dimostrarlo. E dal G20 cinese ha aggiunto che l’Italia deve smettere di piangersi addosso. Un tentativo di spandere ottimismo talmente sopra le righe che a qualcuno ha ricordato il Berlusconi del 4 novembre 2011, il premier che assicurava che tutto andava per il meglio perché “i ristoranti sono pieni”, otto giorni prima di essere costretto alle dimissioni.
Tutte le chance di invertire il trend sono affidate ora alla legge di stabilità, che però dovrà fare i conti con le strettissime maglie imposte dall’Europa. Sin da luglio è in corso un pressing su Bruxelles per ottenere più flessibilità possibile. Mattarella di buon grado sta cercando di assecondare questo sforzo, ribadendo in ogni occasione che non si può rilanciare l’ideale europeo con il solo rigore, ma che serve ripresa economica e più democrazia.
“Rafforzare le prospettive di crescita e di occupazione è il punto di partenza per migliorare la coesione sociale e il sentimento di appartenenza al progetto europeo”, ha scritto il Capo dello Stato nel messaggio proprio al forum di Cernobbio, aggiungendovi una ferma condanna del metodo intergovernativo, delle decisioni prese intorno a un tavolo (a tre o a ventisette, poco cambia).
Di più a Mattarella non si può chiedere. E spetterà a Renzi e Padoan fare in modo che la corda tesa con Bruxelles non si spezzi. Non si può chiedere troppa flessibilità, anche se il nostro paese ne ha bisogno come il pane.
Il problema è che non sembrano esserci idee chiare su quali iniziative prendere per il rilancio dell’economia. Le attese suscitate sono probabilmente molte più delle risorse a disposizione, dalla riforma delle pensioni al rinnovo del contratto del pubblico impiego (fermo dal 2009). Poi c’è la necessità di rimodulare i sostegni alle imprese, dopo la fine del bonus assunzioni, che comunque ha conseguito risultati maggiori del jobs act.
Manovra espansiva, quindi, ma senza far troppo arrabbiare l’Europa: questa è la cruna dell’ago attraverso cui il governo deve passare. Un sentiero talmente stretto da consigliare il rinvio del voto referendario sin quasi al massimo consentito. La data che ha preso quota è quella del 4 dicembre, perchè così almeno una Camera avrebbe già avuto il tempo di approvare la legge di stabilità.
Se dovessero vincere il No è chiaro ormai che non si potrebbe andare al voto: il Senato, sopravvissuto all’ordalia elettorale, avrebbe un meccanismo di elezione radicalmente differente dalla Camera. E Mattarella non potrebbe consegnare il paese all’ingovernabilità. Sarebbe costretto a fare di tutto per formare un nuovo governo — in qualche modo di larghe intese — che riscrivesse in fretta regole elettorali più omogenee. E Renzi, in quanto leader del partito di maggioranza relativa, non potrebbe tirarsi indietro. Potrebbe anche rimanere a Palazzo Chigi, facendosi carico però della nuova legge elettorale.
Ma anche in caso di vittoria del Sì si potrebbero aprire scenari insidiosi. Crescono i segnali che l’Ncd, o almeno una sua parte, potrebbe considerare conclusa l’esperienza del governo per tentare di rientrare da vincitori (avevamo ragione noi, abbiamo fatto le riforme”) nel gioco del ricostruendo centrodestra. In Senato i numeri per il governo potrebbero farsi rapidamente incerti. Al Quirinale si riflette anche su scenari come questo, per essere pronti, in ogni caso, ad aprire un paracadute e salvare il paese dall’instabilità.