Il 24 gennaio la Corte costituzionale comincerà l’esame dell’Italicum. Il parlamento attende di sapere se e come rimettere mano alla legge elettorale che il governo Renzi aveva incardinato nella riforma bocciata il 4 dicembre scorso. Si tratta di una sentenza decisiva perché dalle motivazioni potrebbe dipendere il nuovo assetto del paese, visto che l’offerta politica è ampiamente condizionata dalla legge elettorale. Ne abbiamo parlato con il costituzionalista Mario Esposito. 



Professore, l’Italicum è stato fatto perché nel 2014 la legge elettorale precedente, il Porcellum, è stato giudicato incostituzionale. Dunque ripartiamo da qui. In sintesi, ci può dire perché quella legge era incostituzionale?

Il cosiddetto Porcellum fu dichiarato incostituzionale a causa del premio di maggioranza, introdotto senza una soglia minima per accedervi, e delle cosiddette liste bloccate, che eliminavano ogni possibilità per l’elettore di scegliere il candidato. Conviene precisare che, con riferimento ad entrambi gli elementi, la Corte costituzionale non ne ha accertato l’illegittimità in assoluto, ma soltanto con riferimento alla loro concreta modulazione. 



Cosa significa?

Significa che tre anni fa la Corte ha optato per un giudizio di bilanciamento nel cui ambito le esigenze di governabilità ed efficienza del processo decisionale assumevano rango pari al principio di sovranità popolare, al diritto di voto, al principio eguaglianza, a quello di rappresentanza politica. Lo scrutinio della Consulta, dunque, ha sanzionato lo squilibrio causato dalle scelte legislative di allora. 

In quali punti l’Italicum ripete gli errori del Porcellum? 

Anche se per ovvi motivi l’Italicum non replica in modo pedissequo le disposizioni del Porcellum espunte nel 2014 dalla Corte, tuttavia in diversi punti fa trasparire lo stesso disegno distorsivo che si trova in quest’ultimo. 



Vediamo perché e partiamo dal premio.

Da una parte l’Italicum determina la soglia di accesso al premio di maggioranza secondo quanto stabilito dalla Consulta, ma la calcola percentualmente sui voti validi anziché sugli aventi diritto al voto, riducendo in questo modo l’effetto contenitivo della soglia medesima. Dall’altra attribuisce il premio — qualora nessuna lista raggiunga la percentuale suddetta — a quella che risulti vincitrice in un successivo turno di ballottaggio. 

Allora fa quello che faceva il Porcellum.

Sostanzialmente sì, dato che si può dubitare che una sola lista si aggiudichi il 40 per cento dei voti validi. Non solo. Si premia, in evidente spregio del principio di razionalità, una lista sostanzialmente minoritaria, visto che si deve ritenere tale — al modo di quanto avviene per l’attribuzione del premio al primo turno — quella lista che non ha raggiunto la soglia.

E le preferenze?

Il profilo dell’Italicum concernente le preferenze elude i principi di cui alla sentenza 1/2014 in modo meno evidente, ma non meno problematico. Infatti, se per un verso fa spazio al voto di preferenza, nondimeno assicura ai capilista una sorta di preferenza preminente ex lege

In che modo? 

Questo avviene perché “l’elettore può esprimere fino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capolista (sic!)” e, correlativamente, “sono proclamati eletti, fino a concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione, dapprima i capolista (sic!) nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze” (art. 1, co. 1, lett. c) e g), l. n. 52/2015). Val la pena poi di segnalare un paio di punti che aggravano il contrasto dell’Italicum con i principi costituzionali. 

 

Prego.

Si tratta, in primo luogo, della soglia di sbarramento al 3 per cento che, anche a voler prescindere dalla più generale questione dell’ammissibilità di tali “filtri”, moltiplica però gli effetti distorsivi del premio ai quali ho appena fatto cenno, almeno per quanto attiene agli effetti assicurati ai voti attribuiti alla lista di maggioranza. 

 

Un altro punto che lede il dettato costituzionale?

E’ quello che consente, mediante un sistema di calcolo molto complesso, il cosiddetto slittamento dei seggi da una ad altra circoscrizione quale rimedio estremo nel caso di mancata corrispondenza (per difetto e per eccesso) tra seggi assegnati alla lista in sede nazionale e seggi attribuiti in ambito circoscrizionale. Tale traslazione — che ha già suscitato gravi questioni con riferimento al sistema elettorale italiano per il Parlamento europeo — si pone in frontale contrasto con l’art. 56 della Costituzione, in forza del quale i seggi devono distribuirsi “in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”. Ma non è tutto.

 

Vada avanti.

A tutto questo si può aggiungere che l’Italicum è stato concepito quale elemento integrante della riforma costituzionale, respinta, come tutti sappiamo, dal corpo elettorale il 4 dicembre scorso. Ma l’Italicum disciplina esclusivamente le elezioni della Camera dei deputati, destinata, nell’ottica riformatrice, ad essere la sola assemblea rappresentativa: un’incongruenza che può retroagire con effetti contraddittori rispetto alla predicata razionalizzazione della forma di governo.       

 

Sui giornali è cominciato il toto-sentenza: “si spacchetta” idealmente l’Italicum e si fanno scenari sulla base delle parti che saranno (o non saranno) bocciate, favorendo così — a seconda dei casi — Renzi, Berlusconi, le elezioni a breve o la fine della legislatura. Quali sono i criteri ai quali i giudici si atterranno nell’esame dell’Italicum? 

E’ sensato ritenere che la Corte costituzionale si servirà dei medesimi parametri di bilanciamento già utilizzati nel 2014.

 

Leggiamo che si tratterà probabilmente di una sentenza “autoapplicativa”. Che cosa significa?

E’ un’espressione impropria con cui si vuol dire che l’eventuale sentenza che dichiarasse l’illegittimità parziale dell’Italicum non lascerebbe un vuoto normativo: sarebbe cioè possibile andare a votare sulla base della normativa che resta in vigore. 

 

E si deve sempre poter votare. 

Sì. La questione si pone perché, non disponendo la Corte di strumenti di modulazione degli effetti temporali delle proprie sentenze, una pronuncia che in ipotesi espungesse integralmente una delle leggi che si dicono costituzionalmente necessarie (ossia, come le ha ben definite la stessa Consulta, “indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali”) potrebbe comportare effetti eversivi dell’ordinamento giuridico. 

 

Cosa accadrà?

Accadrà che anche questa volta, come già accaduto nel 2014, la “resecazione” degli innesti modificativi apportati nel 2015 al testo unico delle leggi elettorali del 1957 e giudicati incostituzionali, non darà luogo ad alcuno di quegli effetti. In ipotesi, la Corte indicherà le linee essenziali del sistema elettorale che risulterebbe dalla pronuncia, eventualmente affidando ad “interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi” della pronuncia gli aggiustamenti necessari a salvaguardare la coerenza di tale sistema.

 

Alla luce di tutto questo, anche secondo lei esisteranno delle parti dell’Italicum più a rischio di altre. Quali e perché?

A mio avviso contrastano con la Carta fondamentale tutti i meccanismi che comportano una distorsione della traduzione dell’eguale e libero voto dei cittadini in elezione dei parlamentari. Nella prospettiva che la Corte ha delineato con la sentenza del 2014, parrebbe forse più a rischio la modulazione del premio di maggioranza, sia per il modo in cui è congegnato, sia per il carattere elusivo proprio della pronuncia del 2014.

 

Quale può essere il compito che spetta alle forze politiche?

Conformarsi agli imperativi della Costituzione. E forse sarebbe il caso di riattivare un serio dibattito sull’opportunità di fissare nella Carta fondamentale i lineamenti essenziali del sistema elettorale.

 

E se, tolto l’eccessivo premio di maggioranza, l’Italicum superasse l’esame dei giudici costituzionali?

Nel caso in cui la Consulta espungesse dall’Italicum soltanto il premio di maggioranza, ci approssimeremmo maggiormente ad una condizione di compatibilità con la Costituzione. Ma, ancora una volta, si tratterebbe soltanto di un avvicinamento, che non renderebbe integralmente giustizia al diritto di voto.

 

Una considerazione più generale. Sono anni ormai che parliamo degli istituti più disparati, di misurazione di soglie e dell’adozione di meccanismi di vario genere. Cosa significa tutto questo?

Dimostra che si tratta di sovrastrutture artificiali, quando non artificiose rispetto alla struttura costituzionale, in forza della quale il rapporto rappresentativo deve costituirsi e mantenersi tra il corpo elettorale, per come insediato su base territoriale, e i singoli componenti delle assemblee rappresentative: la nostra Costituzione, infatti, non attribuisce ad alcun organo, tra quelli di vertice, la qualifica di rappresentatività, poiché questa, secondo il chiaro dettato dell’art. 67, è propria soltanto di ogni deputato e di ogni senatore. 

 

Questo che ha appena detto comporta conseguenze, diciamo, tranchant, non è così? 

Significa che non v’è spazio né per premi di maggioranza, né per liste bloccate, né per soglie di sbarramento: il sistema elettorale, nel complessivo assetto costituzionale, deve rispondere all’esigenza basilare di trasformare i voti in seggi, garantendo il principio di eguaglianza degli effetti volitivi della determinazione del singolo elettore, di modo che l’espressione di voto verso la lista e/o il candidato non torni a vantaggio di lista o candidato per il quale non si è votato.

 

In altri termini?

Il voto cioè può non determinare alcun effetto elettivo quando la lista prescelta non raggiunga la cifra, purché questa sia calcolata senza sbarramenti autoritariamente imposti, ma rispecchi invece il rapporto, come vuole la Costituzione, tra popolazione e seggi da assegnare. 

 

E la famosa “governabilità”, per avere la quale è stata pensata e poi bocciata dagli italiani un’intera riforma costituzionale?

Quanto alle formule della governabilità e dell’efficienza istituzionale, al di là della loro genericità, che consente di farvi rientrare di volta in volta le opzioni preferite da chi vi ricorre, alludono agli effetti — e non alle cause — della gestione delle dinamiche politiche. 

 

(Federico Ferraù)

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