Una madre che racconta cosa significa andare a trovare un figlio in carceri dove ti sottopongono a continue umiliazioni; una figlia che spiega il male che ti fa per anni non poter toccare tuo padre, vederlo dietro un vetro e sentirlo sempre più lontano, più estraneo; una sorella che arriva nel carcere di Padova, da cui suo fratello è stato trasferito, solo per chiedere che lo facciano ritornare perché qui, nella Casa di reclusione Due Palazzi, c’è un po’ di umanità in più: queste sono le testimonianze che hanno portato i famigliari a questa Giornata di dialogo contro la pena di morte viva. 



E sono testimonianze che abbiamo voluto con forza far ascoltare prima di tutto a quei dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, che avrebbero il potere di rendere la detenzione più dignitosa anche senza cambiare le leggi, solo applicandole rigorosamente, e non sempre l’hanno fatto. E poi ai politici, che invece certe leggi le devono cambiare, in particolare quell’articolo di legge maledetto, il 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, che fa dell’ergastolo una pena di morte nascosta, e quella legge che riguarda gli affetti delle persone detenute, che nelle carceri italiane sono davvero calpestati, stritolati, ridotti a sei miserabili ore al mese di colloquio e dieci minuti di telefonata a settimana. 



E ancora, abbiamo voluto che tanti giornalisti ascoltassero, visto che questa Giornata di dialogo è stata anche una giornata di formazione per loro, che hanno un grande bisogno di imparare a raccontare le vite di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena, e dei suoi famigliari, che la pena, senza aver commesso nulla di male, la stanno scontando insieme. Perché, come ha detto Papa Francesco di recente, tu giornalista fai disinformazione se “all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi lui non può farsi un giudizio serio”.

Le parole degli esperti, di chi ha studiato e sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, quello che non ti permetterà mai di uscire di galera se non collabori con la Giustizia, sono fondamentali e questa Giornata ha dato loro spazio e ascolto, ma solo un famigliare può spiegare cosa significa, per esempio, avere un padre, o un figlio, che non vedrai mai se non in una sala colloqui di un carcere, e solo un detenuto può spiegare che spesso si sceglie di non collaborare proprio per non mettere a rischio e distruggere la propria famiglia. 



Anche questi sono aspetti di una realtà, quella delle pene e del carcere, che è complicata, e l’informazione la deve raccontare in tutta la sua complessità. Perché la società ha bisogno non di illudersi che i cattivi sono sempre “gli Altri”, ma di capire che può capitare a ognuno di noi “buoni” di avere un figlio, un padre, un fratello che finisce “dall’altra parte”.

Allora, pensando a quel fratello, quel padre, quel figlio che potremmo anche noi  dover andare a trovare in carcere, dobbiamo pretendere che la pena abbia un senso, che rispetti la dignità e che dia speranza.

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