Il conto alla rovescia è ormai finito. L’oracolo della Consulta sta per emettere il proprio verdetto. Addosso ai giudici della Corte costituzionale la responsabilità di indicare la direzione da percorrere per dare al paese regole elettorali omogenee fra i due rami del Parlamento, ora che il bicameralismo perfetto è stato confermato dal referendum di dicembre. Su di loro la pressione esterna è fortissima, soprattutto di chi ha fretta di tornare a votare, da Salvini — che è andato di domenica a manifestare di fronte al portone chiuso — ai 5 Stelle. Auspicio convergente: una sentenza sostanzialmente autoapplicativa, che limiti il più possibile la necessità di intervento da parte del parlamento. 



Non è affatto detto che sia questo lo scenario. Anzi, i retroscenisti da giorni si esercitano nel descrivere una Corte spaccata come e più di quanto non sia visto in occasione della decisione sui referendum proposti dalla Cgil su voucher e articolo 18 dello statuto dei lavoratori. 

In quell’occasione i giudici si sono divisi otto contro cinque (un giudice malato e uno dimissionario non hanno partecipato al voto, e così sarà anche martedì). Governativi contro falchi, con prevalenza dei primi sui secondi.



Non è assolutamente detto che lo schema si riproduca identico nel caso del verdetto da pronunciare sull’Italicum, ma da qui si riparte. L’unico dato certo è che nessuno è convinto dell’assoluta costituzionalità dell’attuale legge elettorale per la Camera. Il braccio di ferro sarà su quante e quali parti verranno dichiarate incostituzionali. 

I fautori della linea morbida, i “governativi”, potrebbero puntare a cancellare solamente pochi punti della legge su cui Renzi aveva posto la questione di fiducia. Il primo e più probabile punto su cui si abbatterà la scure della Consulta è il ballottaggio, e questo essenzialmente per due ragioni. 



In primo luogo il secondo turno non è previsto dalla legge in questo momento in vigore per il Senato, derivata direttamente dall’intervento della Consulta del dicembre 2013. E questo fa aumentare in maniera esponenziale la possibilità che nelle due Camere si formino maggioranze divergenti. In secondo luogo, manca una soglia minima di votanti per l’accesso al ballottaggio, e questo fa ricadere il secondo turno dell’Italicum nel perimetro della sentenza del 2013, laddove stigmatizzava l’eccessiva sovrarapprentazione determinata dal meccanismo, in contrasto con il principio di eguaglianza stabilito dalla Costituzione. 

Oltre al ballottaggio viene data per scontata la cancellazione del meccanismo che permette le candidature plurime, ben dieci su cento collegi, con l’assoluta libertà — in caso di elezione in più località — di scegliere in quale far scattare il seggio, determinando quindi elezione ed esclusione di altri candidati.  

Se gli interventi dei tredici giudici si limitassero a questo, la legge risultante sarebbe sostanzialmente proporzionale, con premio di maggioranza eventuale se qualcuno riuscisse a superare il 40% al primo turno. Sarebbe quindi un sistema quasi immediatamente applicabile. Questo sarebbe l’esito più auspicabile per Renzi. Anche Grillo, Salvini e la Meloni, però, ne sarebbero soddisfatti. E rimarrebbe in piedi la possibilità di andare alle urne entro fine giugno. 

Ben diverso scenario si aprirebbe se prevalesse la tesi di coloro che intendono andarci pesanti. Non solo, quindi, il ballottaggio e le candidature plurime, ma anche il premio di maggioranza al primo turno e le candidature bloccate per i capilista finirebbero per essere cassate. E quest’ultima cancellazione aprirebbe la strada al ritorno delle preferenze, nell’ambito di un sistema proporzionale a turno unico, con la necessità di un intervento esteso del Parlamento e il conseguente allungarsi dei tempi necessari all’approvazione definitiva delle nuove regole elettorali. 

Ai nastri di partenza dell’udienza pubblica di martedì la posizione più radicale sembra partire da posizioni minoritarie, ma nulla è scontato in un dibattito tanto delicato. Fondamentale sarà il fattore tempo, perché la politica non può rimanere appesa troppo a lungo all’attesa di una sentenza. Il tentativo del presidente Paolo Grossi sarà di chiudere martedì stesso, al massimo il giorno dopo. E poi di correre il più possibile con la stesura delle motivazioni della sentenza. La guida sarà, appunto, la sentenza del dicembre 2013, nella quale un ruolo di grande rilievo ebbe l’attuale capo dello Stato. Oggi Mattarella osserva il lavoro dei suoi ex colleghi giudici, anzi ne protegge il lavoro sotto il suo ombrello istituzionale. 

In un’ordinata dialettica fra le varie competenze, il presidente della Repubblica si attende soprattutto che un obiettivo venga raggiunto: regole chiare e coerenti che evitino il rischio di maggioranze divergenti fra Camera e Senato. Se per raggiungerlo dovesse poi essere necessario un confronto parlamentare corposo sulla base della sentenza, nessuno — dalle parti del Quirinale — ne farebbe un dramma.