“Serve un’intesa”, ha detto ieri il presidente del Senato Pietro Grasso. Alla seconda carica dello stato si aggiunge ora la voce della Cei. “La politica non salti subito dalla sedia per decidere quando votare, ma si interroghi sui motivi, perché non è un fatto normale che la magistratura intervenga. Vuol dire che la politica non ha fatto bene il suo mestiere”. Il monito di mons. Galantino, segretario generale dei vescovi italiani, irrompe nel confronto politico successivo alla sentenza della Corte costituzionale, mettendo in guardia il paese sull’opportunità di un voto anticipato, chiesto a gran voce, dopo la decisione della Consulta, da Grillo, Renzi e Salvini.
Ne abbiamo parlato con Enzo Cheli, costituzionalista, giudice costituzionale dal 1987 al ’96 e presidente dell’Agcom dal 1998 al 2005.
Professore, la bocciatura parziale dell’Italicum ha smontato l’ultima formula alla quale ci si era votati per dare al paese l’agognata governabilità. Che ne pensa?
Una formula elettorale può rafforzare la governabilità ma non oltre un certo limite. Anzi, in un sistema molto frammentato leggi elettorali maggioritarie, invece di produrre la governabilità, possono aggravare la spaccatura del paese. Il punto è che la base della cosiddetta governabilità è la stessa coesione del sistema politico. Solo attraverso un graduale avvicinamento di intenti, la costruzione di programmi comuni, il dialogo e il confronto si può uscire da situazioni ad alta conflittualità.
Il compromesso è un male?
Tutt’altro. Se in politica si dimentica questa parola non si fa più politica, poiché il suo compito è raggiungere punti comuni di interessi diversi su cui fare le scelte. Fino a quelle che riguardano la legge elettorale.
E lei come vede la salute delle forze politiche nel paese?
E’ il problema più serio. Per vent’anni abbiamo percorso la strada del maggioritario con il presupposto che si potesse costruire un sistema bipolare con l’alternanza tra un orientamento progressista e uno conservatore, secondo un modello anglosassone non più di oggi ma perfino del passato. Tutto questo è tramontato con le elezioni del 2013.
Cosa si deve fare?
Un lungo e faticoso lavoro di avvicinamento e ricomposizione di intenti, attraverso progetti politici che siano il più largamente condivisi. C’è una frammentazione del quadro politico che non si risolve con il sistema elettorale, perché annovera un molteplicità di problemi che vanno dalla disciplina interna dei partiti all’uso dei mezzi di informazione fino agli interventi per ridurre le diseguaglianze di ordine sociale ed economico.
E invece per vent’anni abbiamo demandato al sistema elettorale di risolvere i problemi dalla politica.
E’ l’errore degli ingegneri istituzionali e di chi si mette nelle loro mani. Ci siamo infatuati dell’ingegneria istituzionale e ci siamo dimenticati della realtà storica del paese, della realtà effettiva del nostro sistema politico, per illuderci che attraverso congegni di varia fattura si potessero risolvere i problemi di fondo. Che non sono mai problemi concernenti norme giuridiche o sistemi elettorali, ma nodi strutturali che vanno risolti sulle lunghe distanze.
La Costituzione che Renzi voleva cambiare è innocente?
La nostra Costituzione tanto bistrattata è stata, nonostante tutto, un elemento di forte coesione del paese. Se è rimasto unito per settant’anni, forse lo si deve anche a una buona Costituzione — a un buon compromesso.
Come commenta la decisione della Consulta?
Si coglie il senso di quest’ultima pronuncia solo se la si legge insieme al dispositivo della sentenza 1/2014. La Corte è rimasta fedele ai principi che hanno ispirato la prima pronuncia relativa al Porcellum.
Ovvero?
Primo, le leggi elettorali, nonostante la loro squisita natura politica, sono sottoposte come tutte le leggi al controllo di costituzionalità. Non esiste una zona franca. Secondo, le leggi elettorali sono costituzionalmente necessarie: la necessità di andare al voto si può presentare in qualunque momento e si deve poterlo fare. Terzo, la Corte si è guardata bene dall’invadere il campo della politica, anche se le ha mandato un segnale forte.
La Consulta non ha imposto di fatto un sistema proporzionale?
No. La politica è ancora libera di scegliere tra un sistema proporzionale e un sistema maggioritario, i giudici costituzionali hanno posto alcune condizioni che la scelta deve rispettare. Una condizione su tutte.
Quale?
Di non creare un meccanismo che alteri irragionevolmente, oltre cioè una soglia di ragionevolezza, il rapporto tra voti ottenuti e seggi conseguiti. Quando questo rapporto si divarica troppo, scatta la censura di incostituzionalità.
Non solo dunque il premio di maggioranza, che è rimasto.
No, infatti. Nel vaglio del Porcellum è caduto il premio perché mancava un quorum minimo di accesso. Non è caduto ora perché il quorum era stato fissato al 40 per cento. Invece è caduto il ballottaggio perché a mio avviso — ma vedremo le motivazioni — non è stato agganciato a un quorum minimo di partecipazione, dando ancora una volta la possibilità di un risultato irragionevole.
Lei ha parlato di un segnale forte alla politica. Ma la politica sapeva di dover mettere mano alla legge elettorale eppure non si è mossa. Ora le opzioni sono due: voto subito, oppure armonizzazione in Parlamento delle leggi elettorali di Camera e Senato. Cosa si deve fare?
Chi dice che si può votare anche domani ha ragione, però, dal punto di vista del merito politico, andare al voto con due leggi che la Corte ha censurato pur rendendole ancora praticabili ma che possono dare esiti molto diversi nelle due camere, è un’operazione improvvida, perché il rischio di non poter costruire maggioranze adeguate e di non riuscire a governare è concreto.
Quindi?
Direi che è molto fondata la preoccupazione del capo dello Stato, che ha esortato ad armonizzare i due risultati, il consultellum per il Senato e ciò che resta dell’Italicum per la Camera.
C’è chi invoca il Mattarellum. Lei che ne pensa?
Se non si riesce a trovare un accordo, è inevitabile che si vada alle prossime elezioni con i tronconi delle due leggi così come sono state assettate dalla Corte. Se si raggiunge un minimo di accordo, si può procedere all’armonizzazione richiesta dal capo dello Stato. Significherebbe armonizzare le soglie di ingresso, estendere la possibilità di coalizioni anche alla Camera, più altre tre o quattro ritocchi. Se invece si vuole andare oltre, credo che l’ipotesi più ragionevole sia proprio quella del Mattarellum.
Perché?
Perché è un “usato sicuro”: è un sistema con alle spalle una storia e degli effetti che le forze politiche sono in grado di valutare. Inoltre ha una sua flessibilità interna nella ripartizione delle due componenti: si può giocare nel dosaggio tra elemento proporzionale ed elemento maggioritario.
(Federico Ferraù)