La Fondazione per la Sussidiarietà insieme a Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli e Libera Associazione Forense riesce a organizzare un dibattito costruttivo, di analisi e di proposta costituente, dopo il risultato del referendum del 4 dicembre 2016 e dopo un anno che ha riservato risultati impensabili di  politica nazionale e internazionale. Gaetano Quagliarello, ripensando al 2016, a un certo punto, ha detto: “Se qualcuno avesse detto che passava la Brexit, avrebbe vinto Trump e avrebbe perso Renzi al referendum, gli avrebbero messo la camicia di forza”.



Ma proprio questo sconvolgimento delle previsioni, che svela un “mondo in rivolta”, se non un “uomo in rivolta” come diceva Albert Camus, non è stato quasi ancora analizzato con razionale freddezza e con passione civile dalle forze politiche italiane. Se ne parla e si litiga in tranquillo disordine. Un tempo, almeno, si sarebbe subito convocato un congresso.



Scusate quindi se, in una forma di modesto auto-elogio, diciamo che è un merito della Fondazione per la Sussidiarietà se ieri pomeriggio in una grande aula della Statale (quella 208 a suo modo storica per gli studenti di giurisprudenza) si siano confrontati con civiltà esponenti del No e del Sì al referendum del 4 dicembre scorso. A suo modo una rivoluzione culturale in questa politica italiana, dove, come dice Luciano Violante, “l’importante sembra vincere, neppure più governare”. 

Ecco tre esponenti di punta del No, come Valerio Onida, Gaetano Quagliariello e Mario Mauro, in dialettica con altrettanti personaggi di rilievo come la costituzionalista Lorenza Violini (che ha pure moderato il dibattito) e l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, che si erano schierati  per il Sì.



Il confronto ha assunto un interesse maggiore alla luce della sentenza della Corte costituzionale sul cosiddetto “Italicum”, la legge elettorale del governo di Matteo Renzi (in gran parte bocciata dalla Consulta) che era in connessione necessaria (il famoso “combinato disposto”), di fatto, con la riforma costituzionale che poi è stata bocciata dagli elettori, creando così un groviglio difficile da districare.

Quello che si è notato nel dibattito di ieri pomeriggio è stata un’analisi condivisa sulla situazione politica italiana. Su una mancanza di coesione sociale e di corretta dialettica politica che portano oggi, spesso, a contrapposizioni senza senso, a un allontanamento dalla politica di molte persone e a un diffuso risentimento verso le cosiddette caste, soprattutto alla “casta politica”. E alla fine verso le istituzioni.

Lorenza Violini, giustamente, ha ricordato gli avvenimenti di quest’ultimo mese e, considerando che tutti, sia i rappresentanti del No che quelli del Sì, erano tendenzialmente favorevoli a una riforma, ha posto una domanda che può sembrare scontata, ma non lo è affatto: “E adesso? Che cosa si fa, che cosa bisogna fare, come si deve continuare?”. Nel dibattito è emersa soprattutto la sfiducia nel clima politico italiano, non la volontà di arrendersi di fronte a una situazione difficile da un punto di vista economico, sociale e istituzionale.

Valerio Onida, ad esempio, ha richiamato la necessità di una riforma costituzionale, non solo migliore nel merito, ma soprattutto nella condivisione tra le forze politiche. In sostanza, Onida e anche Gaetano Quagliarello (che pure su posizioni politiche differenti hanno scritto un libro insieme l’anno scorso per dire No al referendum) hanno sottolineato più volte, come avevano già fatto del resto durante la campagna referendaria, la necessità di una “legge fondamentale”, di una Costituzione, che non può essere varata da una maggioranza di governo, che non può essere l’espressione di una parte del Parlamento, ma deve essere un patrimonio comune.

Come risultato più negativo del risultato del referendum, Quagliarello ha aggiunto “la perdita di una coesione nazionale” e ha ribadito soprattutto la necessità di ripartire “senza fare forzature”.

In fondo, tutti i toni renziani sono stati illustrati, anche indirettamente, e sono quasi emersi nel loro oggettivo errore di strategia elettorale, ma anche di incapacità di unire un Paese,  piuttosto invece con la propensione a dividerlo. Mario Mauro, ad esempio, si è soffermato sullo strano concetto di democrazia illustrata dall’ex premier, secondo la quale “alla sera delle elezioni si deve conoscere il vincitore”. In seguito Mauro ha ribadito il concetto di una mancanza di “visione politica complessiva”.

In molti interventi si è paragonato la differenza di consistenza politica, di visione tra i leader della prima e quelli della cosiddetta seconda repubblica. Al punto che Luciano Violante, in uno dei suoi interventi ha avvertito quasi una “pericolosa apologia della pericolosa prima repubblica”. Ma Violante non lo diceva in termini polemici verso i suoi interlocutori e, anche lui, ribadiva la necessità di un ricambio della politica attuale, della selezione delle classi dirigenti e soprattutto la differenza esistente tra questa classe politica e quella della Costituente: “Quella aveva una storia alle spalle, la Resistenza. Questa dimostra di non avere alcuna storia da condividere”.

Inoltre, l’ex presidente della Camera ha lamentato la scarsa difesa dei valori democratici che si è sempre fatta in passato e ha ricordato che la difesa della democrazia si fa con la difesa dei diritti e il rispetto dei doveri.

Alla fine il tono del dibattito, le analisi e gli obiettivi hanno accomunato persone che erano su diverse posizioni e hanno permesso un’analisi approfondita in un clima costruttivo.

Concludendo il dibattito, Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha indicato alcune priorità: la necessità di avere un paese unito, con il criterio di guardare al di là del proprio particolare. E questo riguarda anche i partiti e gli uomini politici. La difficile situazione economica e sociale, secondo Vittadini, dev’essere poi affrontata con il criterio di quella che può essere chiamata la “bellezza disarmata”, quella che ti fa fare ogni giorno delle cose, intraprendere attività nonostante le difficoltà a cui si va incontro.

Governare un Paese, trovando una legge elettorale che funzioni e che sia costituzionale, significa al momento ridare unità a un Paese, non badare al proprio particolare e continuare a fare quello che è possibile.

E’ stata un’analisi realistica, ragionevole e di buon senso. Si potrebbe risalire alle colpe, ai ritardi (il mondo è cambiato nel 1990, perché non si pensato allora di cambiare una Costituzione che era figlia di un’epoca, gli anni che andavano dal 1946 al 1990?). Ma forse al momento questo è un esercizio inutile. Ora l’importante è resistere alla crisi di sfiducia e cercare di ricostruire in una rinnovata unità.