Dopo il fallimento del referendum del 4 dicembre, il cambio di governo e, da ultimo, la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, si può ancora pacatamente riflettere sulle riforme costituzionali o tutti questi fatti sono diventati la pietra tombale del cambiamento? I problemi di cui abbiamo dibattuto si sono improvvisamente dissolti o restano nella filigrana di un sistema-paese che pare essersi avviato a piccolo cabotaggio verso il definitivo declassamento? In estrema sintesi, è così fuori luogo chiedersi, con semplicità ma anche con piena consapevolezza della complessità della posta in gioco: e adesso?
Hanno provato a rispondere, insieme a Giorgio Vittadini e al rettore della Statale di Milano Gianluca Vago, i primi quattro saggi che furono convocati da Giorgio Napolitano nell’aprile dei 2013.
Queste, in breve, le risposte emerse: secondo Valerio Onida occorre abbandonare il tema della grande riforma costituzionale e progettare riforme specifiche da mettere in atto in Parlamento con un consenso ampio, che venga poi avallato dal popolo, senza cedere alla tentazione di fare le riforme “a colpi di maggioranza”. Per fare qualche esempio, aggiunge Gaetano Quagliariello, la diminuzione dei numero dei parlamentari come strumento per contrastare la deriva populista che fa di questo tema il suo cavallo di battaglia, molto efficace in termini di consenso.
Secondo Violante, però, il problema è a monte: prima di ragionare di riforme occorrerebbe riproporre il tema della democrazia in un momento storico che vede una forte affermazione di tendenze autoritarie, di uomini e donne “forti”, che si pongono come capaci di risolvere i problemi concreti delle persone (mancanza di lavoro, di prospettive, di welfare, di stabilità politica e sociale) secondo logiche semplicistiche ma, evidentemente, convincenti. E, dunque, ragionare sul senso della democrazia, che non può essere considerata una tecnica per ottenere migliori risultati (in questo i sistemi autoritari non hanno eguali) ma un insieme di contenuti e di valori che spingano sul tema dei doveri e quindi della coesione.
Si profila, tra i relatori, una sorta di accordo di fondo: pur essendo stati su posizioni diverse al momento del referendum, ora — messi allo stesso tavolo — sembrano muoversi concordi verso l’idea che occorra una condivisione di fondo su cui armonizzare poi le differenze, sulla scorta del discorso del P residente della Repubblica dopo il 4 dicembre, ampiamente citato dal quarto “saggio”, l’on. Mario Mauro, dalle cui parole traspare tuttavia la chiara opposizione verso lo stile di governo che fu di Matteo Renzi, governo decisionista e poco attento alle ragioni degli altri.
Ma la domanda sull’oggi continua ad incalzare: e adesso? Visto che il convitato di pietra dell’incontro è la scelta concreta per quanto riguarda il sistema elettorale, la posizione espressa in sintesi da Giorgio Vittadini pare essere la più convincente e opportuna per “ripartire”: occorre che il Parlamento si pronunci, evitando di avallare l’idea che si possa votare da subito con due sistemi diversi per Camera e Senato delineati — non lo si dimentichi — da due sentenze costituzionali, quella sul Porcellum del 2014 e quella attuale.
E pronunciarsi vuol dire lasciar da parte per un momento gli interessi specifici di una classe politica poco credibile per andare verso un cambio di paradigma, quello secondo cui la classe politica prima di sé stessa dimostri di aver a cuore il bene del Paese. Quel bene che tanti oggi perseguono in silenzio e dedizione encomiabile: tanti insegnanti, imprenditori, artigiani, persone di ogni classe sociale, che prestano la loro opera per far si che si avveri un cambiamento, un piccolo cambiamento da cui il sistema politico deve prendere esempio per progettare strade nuove per il Paese.