La situazione dentro il Partito democratico è grave, ma non è seria. E si può riassumere in una unica grande domanda di fondo: ci sarà mai qualcuno che troverà il coraggio per sbarrare sul serio la strada a Matteo Renzi? Sinora le dichiarazioni bellicose non hanno avuto alcun seguito. Qualcuno (pochissimi) se n’è andato, tutti gli altri dissidenti dalla linea del segretario hanno mugugnato, promesso talvolta fuoco e fiamme, senza mai passare dalle parole ai fatti. Sono piuttosto passati di schiaffone in schiaffone.
Il fatto nuovo viene da Massimo D’Alema. L’ex premier, ed ex segretario dei Ds, dopo aver capeggiato il fronte interno per il no al referendum costituzionale, è sembrato pronto a mettersi alla testa di un’operazione ben più dirompente, violando il tabù della parola “scissione”. Non c’è altra maniera di leggere l’annuncio della creazione di comitati in tutta Italia, con adesioni e raccolta fondi, per esser pronti a ogni evenienza.
La minaccia di D’Alema, uno che mantiene un discreto seguito, è finalmente qualcosa di concreto. Sinora i vari Speranza, Stumpo, Bersani e compagnia cantante avevano camminato sul filo di un dissenso evanescente e debole. E con Renzi le parti si sono invertite. Subito dopo il referendum era il segretario a invocare il congresso subito, adesso è la minoranza. L’intento è chiaro: allontanare la prospettiva di elezioni anticipate. Ma c’è anche un secondo scopo, poco nobile e poco dichiarabile, ed è quello di contrattare meglio, dopo la conta interna, le candidature per le prossime elezioni. La paura (di essere spazzati via dalle liste) fa novanta.
E’ Michele Emiliano, governatore della Puglia, a farsi portatore della richiesta, con la minaccia di adire le vie legali se la richiesta del congresso anticipato non venisse accolta. Con le carte bollate, però, si fa ben poca strada in politica, e infatti la sparata di Emiliano viene bollata come erronea persino dal punto di vista dello statuto interno al Pd.
Le cannonate di D’Alema sembrano prese assai più sul serio, se per stigmatizzarle deve scendere in campo il suo ex delfino, Matteo Orfini, oggi presidente del partito, e renziano di complemento. Definire D’Alema un riservista che dà una mano all’esercito avversario denota come il pericolo da quella parte viene ritenuto piuttosto concreto.
Il pensiero di Renzi nei confronti della minoranza interna traspare, invece, da un post di Pierluigi Castagnetti su Facebook: “Ma dove vivono”, si chiede l’ex segretario del Ppi, quelli che chiedono il congresso per allontanare le elezioni? “Si rendono conto del clima di antipolitica e forse di antisistema che c’è in giro per il paese? Si rendono conto che simili comportamenti portano dritto dritto al M5s al governo del paese e la sinistra italiana al livello dei partiti socialisti di Spagna e Grecia e fra poco probabilmente della Francia?”.
Si tratta di un’analisi impietosa, ma lucida, che dimostra come lo stato maggiore renziano ritenga un’arma spuntata la minaccia congressuale. Renzi andrà avanti, a meno che non parta davvero un’operazione politica in grado di metterlo alle corde. Piuttosto è la direzione di marcia del segretario che risulta ancora confusa e poco chiara. L’unica certezza è che il puntare dritto sulle urne lo rende più forte dentro il suo partito.
Gli ostacoli sono tutti esterni, però, e sono consistenti. Il primo è Gentiloni, perché staccare la spina a un governo quasi monocolore non è certo una decisione che si può prendere a cuor leggero. Non si tratta infatti di un governo amico, ma di un governo del Pd. E sfiduciarlo nei tempi e modi sbagliati potrebbe avere un prezzo elettorale non trascurabile.
Di conseguenza, il secondo ostacolo è costituito dal Quirinale e dalle sue perplessità. Da Mattarella anche dopo la sentenza della Corte costituzionale è stata ribadita discretamente la richiesta di fare ulteriori passi avanti nell’armonizzazione fra le leggi elettorali di Camera e Senato. Divergono ancora troppo, secondo il capo dello Stato, e potrebbero consegnare il paese all’ingovernabilità.
La trattativa sulla legge elettorale sarà quindi il terreno delle grandi manovre e delle intese possibili per l’oggi e per il domani. Quelle per allargare il fronte del Pd, facendolo diventare un’alleanza in grado davvero di puntare a quel 40 per cento che oggi sembra un traguardo irraggiungibile, ma anche quelle che potrebbero contribuire alla costruzione di larghe intese dopo il voto. E’ una fase che parte sotto i peggiori auspici, con Alfano e Pisapia che dichiarano di detestarsi cordialmente (“mai insieme”), e Berlusconi, il partner possibile delle larghe intese a giurare di non auspicarle affatto.
Siamo ovviamente alle schermaglie tattiche, cui è lecito non dare troppo credito. Dal palco dell’assemblea degli amministratori a Rimini Renzi ha tenuto le carte coperte, indicando il Mattarellum come sistema preferito dal Pd, ben sapendo che non esiste alcuna maggioranza per reintrodurlo. La vera partita si giocherà sui correttivi al sistema uscito dalla Consulta. E siamo solo all’inizio.