A qualcuno, dalle parti del Quirinale, la lettura della prima intervista del 2017 di Matteo Orfini ha fatto cadere le braccia. Affermare che si può andare al voto anche senza riformare la legge elettorale, prendendo ciò che uscirà dalla Consulta, equivale a dimostrare che il messaggio di fine anno di Mattarella non è stato in alcun modo compreso, e tantomeno tenuto in considerazione.
Eppure il capo dello Stato era stato di una chiarezza cristallina: in certe circostanze il ricorso al corpo elettorale è la via maestra, ma “con regole contrastanti tra loro chiamare subito gli elettori al voto sarebbe stato poco rispettoso nei loro confronti e contrario all’interesse del Paese. Con alto rischio di ingovernabilità”.
Mattarella pensava di non poter essere frainteso, ma le sue aspettative sono andate deluse nel giro di una manciata di ore. Con le sue parole aveva voluto fugare tre dubbi. Primo: nessuna intenzione di fare i salti mortali per arrivare alla scadenza naturale della legislatura (febbraio 2018), a dispetto dei santi. Secondo: unica precondizione per prendere in considerazione lo scioglimento anticipato, una riforma elettorale (prima o dopo la Consulta poco importa) che armonizzi i meccanismi per l’elezione dei due rami del parlamento. Terzo, nel frattempo affrontare una lista di emergenze che vanno dal lavoro alla ricostruzione post sisma, sino agli impegni internazionali (vertice europeo, presidenza G7, seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu).
Per Mattarella, par di capire, in presenza di un’ampia intesa sulle regole elettorali il voto a giugno è plausibile, e non c’è alcun dramma se il G7 di Taormina si svolgerà a Camere sciolte e a campagna elettorale avviata. Tra l’altro, questo è già avvenuto nel 1987, con il vertice sull’isola veneziana di San Giorgio Maggiore fra l’8 e il 10 giugno, e le elezioni pochi giorni dopo, il 14 e 15 dello stesso mese. Quindi 11, 18 o 25 giugno sono tutte date plausibili per il voto.
Sono passati quasi trent’anni, ma fra le due situazioni c’è almeno un’analogia importante: un presidente del Consiglio relativamente fuori dalla contesa elettorale prossima ventura, allora Fanfani, oggi Gentiloni, alla guida di due (quasi) monocolori (allora Dc, oggi Pd) che sono ponte verso il voto. E non a caso l’attuale premier ha fatto suo il suggerimento di Mattarella di tenere il governo fuori dal confronto sulla legge elettorale.
Mattarella ha fatto di tutto per costruire condizioni di stabilità e di ordinato procedere della vita istituzionale. Il suo sforzo però rischia di essere vanificato dalla fretta di Renzi e dei suoi di andare a votare. Una divaricazione di intenzioni che non lascia affatto tranquillo il Capo dello Stato.
Tutto dipende da come verranno utilizzate le prossime tre settimane, quelle che ci separano dalla pronuncia della Corte costituzionale sull’Italicum, il cui esame si avvierà il 24 gennaio. Il Pd, per bocca del numero due Lorenzo Guerini, assicura che questo tempo sospeso verrà utilizzato per avviare il confronto con gli altri partiti proprio nel solco dell’auspicio venuto dal Quirinale. Un invito formale agli altri partiti è atteso nei prossimi giorni.
Il timore, però, è che si tratti di un confronto più di facciata che di sostanza, al termine del quale prevalga un atteggiamento del tipo “noi ci abbiamo provato, ma negli altri partiti non c’è lo stesso senso di responsabilità che i democratici hanno sempre dimostrato”. A quel punto saranno dolori, perché — dicono al Nazareno — il tempo “non gioca a favore” di Renzi.
Saranno dolori, anche perché nessuno può assicurare che la sentenza della Consulta sia autoapplicativa e in linea con quella del Senato. E, del resto, anche il “Consultellum” oggi in vigore per Palazzo Madama non è un sistema perfettamente efficace, e avrà bisogno di un intervento non meramente formale per poter essere reso utilizzabile.
Fretta del Nazareno contro buonsenso del Quirinale rischia quindi di essere il silenzioso braccio di ferro delle prime settimane del nuovo anno. Con gli altri partiti a fare da contorno: Lega e Fratelli d’Italia lesti a sposare l’ipotesi renziana del ritorno al “Mattarellum”, mentre Berlusconi si è attestato sul proporzionale, con buona pace di quella “religione del maggioritario” propugnata nel 1994, alle origini di Forza Italia. Alla finestra, invece, i 5 Stelle, che ora preferiscono attendere le decisioni della Corte.
La matassa è quindi intricata e delicata. Nessuno sa prevedere come questa partita potrà evolversi, né se il capo dello Stato potrebbe perdere la pazienza e richiamare tutti davanti ai rischi di andare al voto senza aver allineato le leggi elettorali. Un solo richiamo alla irresponsabilità di andare verso l’ingovernabilità (che poi lo stesso Mattarella si troverebbe a gestire dopo il voto) provocherebbe dentro il Pd un mezzo terremoto. Il rischio di una spaccatura sarebbe davvero dietro l’angolo. E per Renzi il prezzo da pagare sarebbe altissimo.