Sergio Mattarella — come ogni altro capo dello Stato dell’Italia repubblicana — arrivò al Quirinale per una serie di circostanze, oltre, s’intende, per i meriti che aveva. A Matteo Renzi andava benissimo un personaggio di riconosciuta statura politica, ma che non fosse invadente e che non avesse una personalità spiccata da protagonista. Renzi su questo punto deve aver insistito a costo di giocarsi l’accordo sulle riforme costituzionali con Silvio Berlusconi e una parte del centrodestra. Le possibilità per una prosecuzione del patto del Nazareno c’erano tutte. Forse bastava “interessare” Giuliano Amato, o in caso di contestazioni troppo forti, si poteva interpellare anche Anna Finocchiaro, che avrebbe aperto le stanze del Quirinale a una donna per la prima volta. Restano ancora molti interrogativi senza risposta in quella vicenda, che alla fine però ha coinvolto tutti, portandoli in ordine sparso al referendum del 4 dicembre 2016, la partita persa duramente da Matteo Renzi e dal suo governo. E di fatto, nonostante le tribolazioni romane di Virginia Raggi, il risultato del referendum è stato nuova benzina nel motore dei pentastellati di Beppe Grillo.



Al termine di questa confusa partita nazionale, con un contesto internazionale ed europeo in piena evoluzione, il presidente Sergio Mattarella non è apparso più schivo, riservato e poco invadente. Nel momento in cui Matteo Renzi si è dimesso, dopo una scommessa da bar (che adesso tutti onorano con sussiego) detta al momento del tentativo di riforma costituzionale, Mattarella ha risolto una crisi pericolosissima nel giro di 24 ore.



Si potrà dire che ha varato un “governo fotocopia”, che la scelta del “conte” Paolo Gentiloni è sembrata solo il contraltare del modo di parlare di Renzi, per ribadire in modo normale le stesse cose che diceva Renzi. Si possono trovare diversi accostamenti e immaginarsi molti retroscena, ma non c’è dubbio che “l’andata e ritorno”, forse programmata da Renzi, non è più all’ordine del giorno e le elezioni sono un desiderio generale, a parole, che però va a sbattere contro la mancanza di una buona legge elettorale che Mattarella, nel discorso di fine anno, ha messo al primo posto per ritornare subito al voto.



La politica è un lavoro intellettuale creativo che si sviluppa giorno dopo giorno, guardando la realtà attentamente, e non può ridursi a un programma elaborato e promesso schematicamente per i prossimi venti anni. Le complicazioni si moltiplicano, con una facilità incredibile. E’ inevitabile che il “conte” Gentiloni prosegua nella “continuità renziana”, ma anche nella discontinuità di toni e soprattutto governi di fronte a problemi che nell’ultimo anno, a livello nazionale, internazionale ed europeo si sono accumulati.

Ora, in attesa della riforma elettorale, in attesa che Renzi e il Pd si mettano d’accordo al loro interno, in attesa che le altre forze politiche si ricompattino o si aggreghino (si è visto di tutto in questa legislatura, con oltre 235 trasmigrazioni parlamentari), il governo di Gentiloni e il presidente Mattarella sanno di aver di fronte tre problemi principali e qualche altro “fastidio”. 

Facciamo una breve rassegna. Con il 2017 si è entrati nel decimo anno della crisi economica mondiale e nel nono (per quanto si è avvertito) della crisi europea e italiana. I numeri sono sempre gli stessi, con variazioni insignificanti e soprattutto una crescita che, in Italia, non c’è più da venti anni almeno. E il passare del tempo provoca frustrazioni e abitudine a una perenne delusione verso la politica. Le colpe? Stando alle leggende metropolitane e ai retroscena da avanspettacolo, si potrebbe ormai risalire a D’Azeglio, Cavour, Crispi e Giolitti. Ma diventa tutto comico, o meglio tragicomico, attribuire le colpe sempre al passato ormai remoto.

Il problema fondamentale è che tre governi di coalizione, con tecnici o politici nuovi, in cinque anni hanno lasciato quasi tutto come prima; e i decimali preoccupano anche Mattarella che, non a caso, ha posto il problema del lavoro come il problema principale italiano — il problema del lavoro dei giovani, per evitare che intere generazioni si “perdano”, non solo perdano la speranza. E’ chiaro che Mattarella, quando sottolinea questo problema, mette al centro il lavoro che deve arrivare da un rilancio e da uno sviluppo economico da perseguire in tutti i modi e con tutte le possibilità. Non è forse stato un campanello d’allarme che più dell’80 per cento dei giovani in Italia abbiano votato No al referendum, dimostrando di voler bocciare una politica e non una riforma costituzionale?

In sintesi, quando Mattarella parla di questo problema, in termini chiari, fa intendere che nella società italiana, pur ricca di slanci positivi, c’è una “bomba sociale” che rischia di esplodere.

Se il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro e di sviluppo è il problema principale, occorre aggiungere che i fastidi si moltiplicano. La ricapitalizzazione per via privata del Monte dei Paschi di Siena non è riuscita e quindi ci penserà lo Stato, l’intervento pubblico. Problema risolto? C’è da sperare che non abbia conseguenze di diverso tipo. Mps ha avuto il suo “Vietnam” nella vicenda della scalata di Antonveneta (anche quando la crisi mondiale era già scoppiata). Antonveneta non era una banca normale per molti aspetti. Per quale motivo c’è stata tanta insistenza da parte di Mps nel volerla acquisire? In più, qual è la reale entità dei crediti incagliati e perché, da quando si è parlato di intervento pubblico, c’è chi chiede con insistenza la lista dei creditori privilegiati e non certo “bisognosi”? Anche Mps è una patata bollente che deve essere risolta al più presto, con un minimo di chiarezza, nell’interesse generale e soprattutto nell’interesse del sistema bancario italiano, che sembra ormai nel mirino degli speculatori e degli analisti finanziari di tutto il mondo. 

Si può comprendere la fretta e la furia riformatrice di Renzi, ma il nodo Mps (banca su cui il segretario del Pd invitava a investire) va sciolto e non vanno ringraziati (sono già stati pagati o no e quanto?) gli amici di JPMorgan e dell’attuale Mediobanca che hanno fatto cilecca.

Dopo questi problemi nazionali, c’è un problema para-nazionale, cioè europeo che riguarda la manovra, con una rivisitazione inevitabile che costerà qualche miliardo in più, di cui al momento non si conosce l’entità. Ma non c’è solo un problema contabile, c’è un rapporto che deve essere ricostruito se si vuole restare in questa Europa, oppure va rivisto se si vuole indirizzare l’Unione verso una nuova politica economica. In questo caso si va dalla questione migranti alla famosa e ormai logora flessibilità. Ma una scelta va fatta una volta per tutte, nell’interesse italiano e anche nell’interesse del disegno europeo.

C’è poi un terzo problema. E’ di puro carattere internazionale. Donald Trump, tra due settimane sarà formalmente presidente degli Stati Uniti, la più grande potenza del mondo e il nostro alleato di riferimento storico da settant’anni a questa parte. Si deve incontrare con Vladimir Putin e probabilmente siglare un rapporto nuovo e costruttivo, dove pure le famose sanzioni potrebbero essere cancellate. Quale sarà il nostro atteggiamento? In più, il bilancio italiano destina alla difesa l’1,5 per cento del Pil. Ora Trump chiede che i membri della Nato, tra cui l’Italia, arrivino al 2 per cento. Altro piccolo problema.

Si possono comprendere i problemi di Renzi, ma anche quelli di Mattarella sono piuttosto interessanti.