Uno dei limiti più evidenti della riforma costituzionale respinta dal voto referendario era dato dall’intervento sulla legislazione: il bicameralismo, i procedimenti legislativi e il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni; come se i problemi della ripresa economica, degli investimenti pubblici, dei servizi pubblici, delle infrastrutture, eccetera, fossero una conseguenza di mancanze legislative. 



Niente di più sbagliato. Da tempo è noto che il problema principale delle istituzioni italiane sono le amministrazioni pubbliche e soprattutto quella dello Stato; basti pensare al disastro della giustizia, che resta emblematicamente al primo posto tra le cause di non attrazione degli investimenti esteri in Italia.

Finalmente prende atto di ciò anche Sabino Cassese, che, nell’editoriale sul Corriere della Sera del 4 gennaio (“Lo Stato inefficiente. l’imbuto dove tutto si ferma”), propone una stagione di riforme amministrative; in particolare, sul pubblico impiego, sulla dirigenza e sulla distribuzione delle funzioni e l’organizzazione dell’amministrazione.



Non è che in Italia siano mancate riforme amministrative nel passato recente e meno; anzi, queste sono state sovrabbondanti, anche per merito di Cassese, e hanno toccato quasi tutti gli aspetti dell’organizzazione e del funzionamento delle pubbliche amministrazioni; solo che queste riforme sono state progettate e realizzate peggio della riforma costituzionale e si sono rivelate un vero disastro. 

Il limite maggiore è stato l’innovazione per l’innovazione, senza comprendere se il malfunzionamento amministrativo fosse conseguenza di una cattiva applicazione delle norme, oppure di un’obsolescenza delle funzioni amministrative. Molte volte non si trattava di riformare le amministrazioni, bensì di governarle per renderle efficienti, ed è questa capacità di governo dell’amministrazione che in Italia sembra venuta meno nella classe politica.



Anche i sistemi amministrativi necessitano di essere consolidati e di rispettare la tradizione “amministrativa”; ne va della loro funzionalità, serietà e affidabilità.

Faccio alcuni esempi per chiarire il senso del discorso. Il professore con il quale ho studiato in Germania, che oggi avrebbe 96 anni, era andato in cattedra all’inizio degli anni 50 con le stesse regole che vigevano prima della Costituzione di Weimar; anche i suoi allievi, miei coetanei, e pure gli allievi degli allievi hanno seguito le medesime procedure.

In Italia, invece, il professor Crisafulli, un eminente costituzionalista, nato nel 1910, maestro del mio maestro, è andato in cattedra con la riforma Gentile del 1923, il mio maestro con i provvedimenti urgenti del 1969; io ho conseguito la cattedra dopo la riforma del 1980 e i miei allievi dopo la legge del 1998 e quelli più giovani dopo quella del 2010. Inutile dire che ogni riforma del reclutamento universitario si è portata dietro un diverso modo di comporre le commissioni, oneri diversi per i candidati e modelli organizzativi e funzionali, a volte, diametralmente opposti. È mancata la funzionalità amministrativa, pure la serietà è andata scemando e nessuna affidabilità possono avere i giovani studiosi sul sistema universitario italiano. 

In Francia, chiunque vada a ottobre di ogni anno a Parigi nelle librerie di St. Michel troverà i banchetti con i libri consigliati per i concorsi nella scuola, in base ai bandi pubblici; gli scritti del concorso si tengono nel marzo successivo, ad aprile sono noti i risultati e a maggio/giugno si affrontano gli orali; i nuovi professori sono immessi in ruolo a settembre all’inizio del nuovo anno scolastico. È così ogni anno dall’istituzione della scuola pubblica al tempo della terza Repubblica (1870) e, per la tradizione che rappresentano, gli insegnanti francesi sono soprannominati ancora oggi “gli ussari neri della Repubblica”, per via del vestiario usato a quel tempo. 

Nel caso italiano, pur avendo avuto la medesima tradizione scolastica della Francia, i concorsi nella scuola sono un pallido ricordo che risale alla prima metà degli anni 60. Il ministero competente non è più capace di gestire concorsi del genere con una tempistica adeguata. Il risultato è stato un imponente precariato degli insegnanti pubblici, stabilizzato nel tempo senza adeguate verifiche e di continuo rinnovato. L’ultimo fallimento amministrativo in questo campo è stato la “Buona Scuola” del governo Renzi.

Sempre in Francia i dipartimenti sono diventati la struttura portante dello Stato unitario, con la prima Costituzione, quella del 1791. La loro formazione ha seguito il principio della “giornata a cavallo”, che nel medioevo aveva guidato la costruzione delle città in Italia. Da allora, i dipartimenti si sono consolidati e hanno consolidato lo Stato, soprattutto con le riforme napoleoniche che istituivano il prefetto. Nel recente passato, dipartimenti e prefetti sono stati al centro della riforma dello Stato francese, con la formazione delle Regioni, aggregato di dipartimenti, e con i nuovi compiti dei prefetti dipartimentali e dei prefetti regionali: i primi motore del deconcentramento dello Stato, i secondi della decentralizzazione dello Stato.

I dipartimenti furono messi in discussione dalla Commissione Attali istituita dal presidente Sarkozy per lo studio dell’efficienza dell’amministrazione. La conclusione fu la cacciata di Attali dalla Francia, che riparò in Italia, venendo a insegnare alla Luiss di Roma. Del resto, era logico.  

Le province italiane, molto più antiche dei dipartimenti francesi, avevano permesso allo Stato unitario di consolidarsi e di apportare i benefici del pluralismo territoriale allo Stato centrale. Entrate nell’occhio del ciclone — nessuno sa spiegare bene il perché — con la celebre lettera dei due presidenti della Bce del 5 agosto 2011, sono state svuotate e rese afunzionali nell’attesa di una riforma costituzionale che avrebbe dovuto cancellarle definitivamente. Legislatore statale e Corte costituzionale hanno motivato così i loro atti in spregio della Costituzione vigente al tempo e per fortuna ancora vigente. Adesso nessuno sa come risolvere lo sfascio delle province che sono l’unico ente vocato alla pianificazione territoriale.

Anche istituzioni più recenti come il “Commissario del governo presso le Regioni”, istituito dalla Costituzione del 1947, che anticipava di oltre vent’anni il prefetto regionale francese e che è stato integralmente copiato dalla Costituzione spagnola del 1978, è stato abolito dalla riforma del 2001, senza pensare al coordinamento tra le funzioni regionali e locali e quelle dello Stato. Giustamente nella dottrina spagnola si leggono commenti feroci sull’abrogazione di questa figura di coordinamento, tanto più che nessuno sapeva come avrebbero potuto coordinarsi le amministrazioni dei diversi livelli di governo nel compimento delle funzioni amministrative.

Gli esempi potrebbero continuare, includendo la sanità, i servizi sociali e persino i sistemi elettorali su cui a breve avremo un altro esempio dell’insipienza italiana. Tuttavia, per tornare al punto di queste note: certamente sono necessarie importanti riforme amministrative nel nostro Paese, ma anche il recupero di tanta “tradizione amministrativa” che agevola lo sviluppo della capacità di governo. È grazie a questa che le amministrazioni pubbliche europee erogano servizi, producono beni sociali e realizzano politiche pubbliche. 

Lo Stato è soprattutto amministrazione che concretizza i diritti dei cittadini ed è l’amministrazione che deve qualificare la funzionalità, la serietà e l’affidabilità dello Stato non solo verso i cittadini.