Arriva anche il turno della Sardegna. Non di fare la Catalogna, ma di seguire le orme dei referendum consultivi di Lombardia e Veneto per avere più autonomia e difendersi dall’inefficienza del centralismo. A promuoverlo è il Movimento referendario per l’inserimento del principio di insularità in Costituzione, che ha già raccolto 18mila firme in 20 giorni e punta alle 100mila entro dicembre. L’appartenenza è trasversale: si va da esponenti di Forza Italia e Pd agli ambientalisti. Ma il costituzionalista Gianmario Demuro mette in guardia i promotori e boccia l’iniziativa: “Il tema posto da Roberto Frongia (presidente del comitato promotore, ndr) corre il rischio di essere sanzionato dalla Consulta. La strada maestra per ottenere più autonomia è quella dell’articolo 116 della Costituzione, come ha fatto l’Emilia Romagna”. Non solo. “Quando il referendum diviene strumento di lotta politica — spiega Demuro — negli ordinamenti scatta l’autodifesa”.



Professore, il referendum per l’insularità della Sardegna ha lo stesso scopo di quelli di Lombardia e Veneto? 

Le consultazioni referendarie di Veneto e Lombardia nascono da un pronunciamento della Corte costituzionale sull’illegittimità di una serie di referendum che volevano intervenire su materie rispetto alle quali le Regioni non possono pronunciarsi neanche in via consultiva.



Insomma erano referendum dal sapore secessionista.

Nella sostanza, Veneto e Lombardia volevano chiedere ai loro cittadini se intendevano diventare una Regione a statuto speciale; ma la Consulta nel 2015 ha detto che le Regioni speciali sono solo quelle citate nell’articolo 116 della Costituzione.

Conclusione?

Le Regioni possono chiedere in via informativa e preventiva alle comunità di riferimento che cosa pensano dell’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. La quale è già nelle mani dei presidenti delle Regioni a statuto ordinario. Non è un caso che il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, abbia intrapreso questa strada.



A questo punto la domanda vien da sé: che senso hanno quei referendum?

E’ un senso che può dar loro solo chi li ha indetti: oggi hanno appunto un significato consultivo, visto che “il quesito referendario — così ha detto la Consulta due anni fa — non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti” (sentenza 118/2015, ndr). 

Veniamo all’iniziativa referendaria dell’on. Roberto Frongia in Sardegna.

In questo caso si vuole un referendum per inserire in Costituzione la condizione di insularità, che per i proponenti crea una condizione di diseguaglianza. Ma l’insularità deriva da una condizione geografica, non da una definizione giuridica. 

Che esito prevede?

Il tema posto da Frongia corre il rischio di essere sanzionato dalla Consulta. Alle Regioni non è concesso di occuparsi di questioni costituzionali, nemmeno quando riguardano le Regioni medesime.

I referendum di Lombardia, Veneto e Sardegna possono dare luogo a sviluppi che evocano la Catalogna?

No, però occorre dire che lo strumento referendario andrebbe maneggiato con più cautela. Quando si ricorre al referendum si sa come si parte, non si sa come si arriva. In questo la vicenda catalana è esemplare: il referendum ha avuto un effetto indesiderato che nessuno riesce più a gestire.

Dove sta l’errore?

Io penso che tutte le questioni affidate alla rappresentanza politica debbano essere gestite da questa. C’è una legge sul federalismo fiscale, la n. 42 del 2009, di cui non si è più parlato da molto tempo, che prevede benefici fiscali concessi anche in riferimento al tema dell’insularità. Il titolo III dello statuto speciale della Sardegna prevede la possibilità di revisione dello statuto medesimo sulla base di una legge ordinaria di intesa tra lo Stato e la Regione: si può utilizzare questa via per definire un nuovo regime di entrate per la Sardegna.

Perché avviene questo massiccio ricorso al referendum?

Perché la politica è molto più debole oggi di quanto non fosse negli anni passati. Il referendum, che ricordiamolo, è un istituto a disposizione delle minoranze, cominciò ad essere usato negli anni 70 da forze minoritarie come i Radicali per imporre i loro temi. La tendenza si è consolidata e ha segnato i trent’anni successivi. Ora è il contrario: sono le forze di maggioranza ad usare il referendum. In questo a mio avviso c’è qualcosa che non va.

Zaia o Maroni le direbbero che lo fanno perché le strade esistenti non hanno portato da nessuna parte. 

Ma così confermano che è uno strumento di lotta politica. E di conseguenza negli ordinamenti scatta l’autodifesa. Anche in questo caso la Catalogna insegna. Quando c’è addirittura una rivolta nei confronti di una sentenza della Corte costituzionale, poi finisce che si arriva agli ultimatum, come quello lanciato oggi (ieri, ndr) da Rajoy.

Come mai in Spagna si è arrivati a questo punto?

Ci sono colpe da ambo le parti. Quello cui stiamo assistendo è il chiaro segno che il tema della Catalogna non è mai stato affrontato seriamente, come abbiamo fatto noi con il Trentino-Alto Adige evitando contrapposizioni nette e il generarsi di situazioni da Irlanda del Nord o da Paesi Baschi. Non è un caso che Javier Cercas parli di golpe e di un clima come quello che ha preceduto la guerra civile.

Nel suo recente discorso all’Onu Donald Trump ha detto che “lo stato nazionale rimane il veicolo migliore per innalzare la condizione umana”. E’ d’accordo?

Quello che dice Trump è apparentemente semplice: per evitare i danni della globalizzazione, torniamo indietro allo stato come lo abbiamo conosciuto fino a ieri e così risolveremo i nostro problemi. Ma questa è un’illusione, perché ormai lo stato di cui parla Trump non c’è più.

Ammette anche lei però che la sfida è appunto di “evitare i danni della globalizzazione”.

Sì, ma non richiudendosi in un hortus conclusus. Una tentazione anche italiana, visto che la nostra storia si presta molto bene a questa chiave di lettura.

Oggi l’Europa, dalla Catalogna al Belgio al Lombardo-Veneto è piena di insofferenza verso il vecchio centralismo. Gli stati si trovano tra l’incudine e il martello, tra i movimenti dal basso e il super-stato europeo.

Direi che lo stato è in una tenaglia tra globalizzazione e istanze locali. Ma il nazionalismo degli stati come lo abbiamo conosciuto è già evoluto verso forme di aggregazione differenti dal passato. Una di queste è proprio l’Unione europea. Che potrebbe evolvere verso una federazione di stati, anche se non all’americana. Una federazione che su alcune materie prosegua sulla strada della cessione di sovranità. 

Non ne abbiamo già ceduta molta?

Su alcune materie sì, su altre meno. Oggi manca una solidarietà europea. Avremmo bisogno di un bilancio europeo diverso in cui c’è anche la solidarietà, non soltanto il rigore.

Speriamo che Schäuble lo capisca.

Ci sono due Europe, è vero, ma questo tema ci porterebbe troppo lontano. La mia opinione è che gli stati per sopravvivere debbano sviluppare grandi capacità di accordo e di evoluzione verso sistemi di tipo solidale. Se la Ue va verso questo modello, allora si può pensare che la tesi di Trump sia superata. 

Che problemi pone la Sardegna — ma anche Lombardia e Veneto — a chi governa e governerà il paese?

Di Lombardia e Veneto preferisco non parlare, posso essere più preciso sulla Sardegna. Come intende rapportarsi lo stato con la Sardegna, una Regione scarsamente popolata, che non è Mezzogiorno e che però ha capacità produttive più basse rispetto alle altre aree del paese?

Insomma, Roma rifletta.

Sì perché il centralismo è la cosa più sbagliata. La Costituzione afferma l’unità e l’indivisibilità della repubblica, ma garantisce anche le autonomie. E questo compito è per la maggior parte inattuato.

(Federico Ferraù)