Alzi la mano chi sa che l’Italia ha due Catalogne in casa e che tra 20 giorni si replica da noi il copione delle elezioni (consultive) per chiedere autonomia. In Spagna vogliono l’indipendenza, per la verità. Da noi Veneto e Lombardia ci hanno provato ma la Corte costituzionale gli ha tagliato le ali. Quale autonomia? In quali materie? Quanto tempo ci vorrà? Domande senza risposta, e non l’avranno nemmeno dopo il voto di domenica 22 ottobre. Un voto che corre il rischio fortissimo di diventare un boomerang per i promotori, cioè la Lega Nord, al contrario di quanto sta accadendo nella penisola iberica dove chi ci sta rimettendo è Madrid.
Un passo indietro aiuta a capire meglio. L’idea del referendum per l’autonomia è del Veneto, che confina con due regioni a statuto speciale (Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) e oggettivamente, in alcune zone delle province di Belluno e Treviso, subisce una concorrenza sleale legalizzata da parte di una fetta d’Italia. A questo si unisce un rimpianto antistorico per le antiche glorie della Serenissima e i residui autonomisti del Carroccio targato Bossi. Non dimentichiamo che l’embrione della Lega fu la Liga Veneta, nata da una pattuglia di nostalgici guidati da Franco Rocchetta.
Era il 2014 quando il governatore veneto Luca Zaia avviò le pratiche per il referendum. Doveva essere tutt’altra cosa: i quesiti erano molto dettagliati soprattutto in tema fiscale. Ma è chiaro che, se la Costituzione vieta di fare referendum nazionali in materia tributaria, il limite vale a maggior ragione per le consultazioni locali. Dunque queste richieste vennero bocciate. L’unica domanda sopravvissuta alla falcidie della Consulta è un interrogativo perfino banale. Sulla scheda bisognerà rispondere Sì o No alla seguente questione: “Vuoi che alla regione siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.
La Corte ha salvato questa formulazione perché non dice nulla: chi non vuole più autonomia da Roma e dal resto d’Italia? Ma quale autonomia? Il problema è che le uniche materie in cui si potrà chiedere più poteri per le regioni sono quelle classificate dalla Costituzione come “concorrenti”, cioè che possono essere disciplinate da leggi sia nazionali sia regionali. Ma è già previsto dalla Carta che le regioni possano chiedere più spazi istituzionali, non c’è bisogno di convocare un referendum e spendere una trentina di milioni tra Lombardia e Veneto.
Anche i tempi sono importanti per capire il contesto di questo voto. Il Consiglio regionale veneto votò nel 2014, la Consulta ha risposto nel 2015 e si vota nell’ottobre 2017, con la Lombardia di Bobo Maroni a rimorchio, a sei mesi dal voto nazionale. Il sospetto che si tratti più di uno strumento di propaganda leghista e una prova di forza nel centrodestra per sminuire il peso specifico degli eventuali alleati nella futura coalizione è fondato. Dalle parti del Po non c’è quella tensione separatista che alligna sotto i Pirenei. I veneti non sono i catalani.
Esiste invece un rischio concreto. I referendum lombardo-veneti richiedono un quorum di partecipazione per essere dichiarati validi, come quelli nazionali. Deve votare almeno il 50 per cento più 1 degli aventi diritto. Ce la faranno Zaia e Maroni a mobilitare tutta questa gente? Perché gli alleati del centrodestra dovrebbero dare una mano alla Lega per poi sentirsi dire che il Carroccio prende più voti di loro? Perché nessun giornale del centrodestra ne parla? E perché un elettore non particolarmente vicino alla Lega dovrebbe scomodarsi per andare a votare se il referendum non avrà nessun effetto immediato e, con tutta probabilità, nemmeno in futuro? Matteo Salvini ha fiutato il pericolo e non ha mai cavalcato l’iniziativa di Zaia poi fatta propria anche da Maroni. Il boomerang, proprio alla vigilia del voto, è dietro l’angolo.