Il primo ottobre in Catalogna si è svolto un referendum per l’indipendenza funestato da atti di violenza e da uno scontro frontale tra governo spagnolo e autorità catalane. Il prossimo 22 ottobre in Lombardia e in Veneto si svolgeranno referendum consultivi per l’autonomia e in molti si diffonde il timore che siano la stessa cosa. Non è così.
Perché ha senso andare a votare domenica 22 ottobre per il Referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto?
Si tratta di un referendum utile o di una operazione politica strumentale? Cosa succederà concretamente il giorno dopo? Corriamo gli stessi rischi della Catalogna?
Queste sono le domande che si pongono molti elettori. Sono le domande a cui voglio dare risposta in questo testo.
Cominciamo col chiarire cosa si vota: il quesito chiede se l’elettore vuole che la Regione Lombardia avvii una iniziativa per ottenere — nel quadro dell’unità nazionale e secondo quanto disposto dall’art.116 c. 3 della Costituzione — “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per tutte le materie per cui la Costituzione lo consente. Quello Veneto è più sintetico ma di analogo contenuto. Si tratta dunque di un referendum consultivo (ma anche la Brexit lo era, consultivo non significa irrilevante), che non ha alcun contenuto indipendentista o secessionista e che opera legittimamente nel pieno rispetto della Costituzione. Una proposta radicalmente diversa da quella fatta agli elettori della Catalogna in Spagna, che era per l’indipendenza, fuori e contro la Costituzione spagnola. Non ci saranno quindi scontri né con il Governo nazionale — che riconosce la piena legittimità del voto in Lombardia e in Veneto — né con le forze dell’ordine. Siamo nel rispetto assoluto della legalità ma anche della democrazia, cioè della volontà popolare.
A cosa serve dunque il referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto?
La nostra Costituzione prevede che tutte le Regioni (ad eccezione delle 5 a Statuto Speciale) abbiano le stesse competenze e le medesime risorse. Il presupposto culturale di questa scelta è l’idea che l’uniformità avrebbe ridotto le disuguaglianze, anche grazie alla redistribuzione di risorse assicurata dal centro. A quasi 50 anni dall’avvio dell’esperienza regionale credo si possa dire con certezza che l’uniformità non ha ridotto le disparità ma tutt’al più le ha aumentate: tra Lombardia e Calabria ci sono forse meno differenze oggi che nel 1970? Uniformità e perequazione sono stati però i principi in forza dei quali oggi la regione Lombardia ha un residuo fiscale — ovvero la differenza in un determinato territorio fra quanto raccolto come imposte e tasse e quanto restituito come spesa pubblica, trasferimenti o servizi — di oltre 54 miliardi di euro, di gran lunga il più alto di tutta Europa (in Catalogna è 8 mld/euro, in Baviera solo 1,5). Se il modello dell’uniformità non ha funzionato è tempo di provare a sperimentare un modello diverso. L’unico che oggi conosciamo in Italia è quello delle Regioni a statuto speciale, che derivano da accordi precostituzionali fondati su problemi veri allora ma in gran parte superati oggi (dal banditismo siciliano alla tutela delle minoranze linguistiche).
La Costituzione italiana dal 2001 prevede però la possibilità di introdurre un altro modello, il cosiddetto “federalismo differenziato”: in pratica facciamo fare di più, diamo più autonomia, più competenze e più risorse alle regioni che ne fanno richiesta e hanno dimostrato di saper gestire bene quelle che hanno. Non uniformità, ma differenziazione: un po’ come succede quando si passa da una divisa a un vestito su misura. A me sembra un’idea migliore e destinata a produrre risultati più efficaci: non dividiamo il Paese ma rispettiamo le specificità e liberiamo le energie dei territori, come già avviene nei sistemi federali (Stati Uniti, Germania, Svizzera) che sono anche quelli che hanno reagito meglio alla crisi economica. E’ quanto dispone il terzo comma dell’art. 116 della Costituzione che stabilisce appunto che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” possono essere attribuite alle regioni che ne facciano richiesta nelle materie dell’art.117 terzo comma (le cosiddette competenze concorrenti) e in alcune del secondo comma (le competenze esclusive statali).
Come avviene in pratica questa attribuzione di ulteriori forme di autonomia?
La procedura costituzionale prevede che esse possano essere attribuite alle Regioni che ne facciano richiesta, dopo avere sentito gli Enti locali, previa intesa col Governo e con legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta dai due rami del Parlamento.
Per avviare questo percorso, si obietta, un referendum non sarebbe necessario, è sufficiente una delibera del Consiglio regionale. Così effettivamente avvenne 10 anni fa, con una delibera del Consiglio regionale approvata il 3/4/2007 su iniziativa di Roberto Formigoni. Quale fu il risultato? Nulla; neppure — dopo una serie di incontri con il governo allora di centrosinistra e poi dopo le elezioni del 2008 vinte dal centrodestra — la sottoscrizione dell’intesa col Governo che costituisce il primo passo. Analoga sorte hanno avuto tutti i tentativi similari avviati da quattro Regioni. Finora le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” previste dalla Costituzione sono rimaste inapplicate e lettera morta.
Perché? La risposta è semplice: perché, di fronte alle resistenze dei ministeri romani e alle spinte centralista della burocrazia, preoccupata di perdere il proprio potere, il voto dei Consigli regionali non ha sufficiente forza politica.
Che cosa dunque può dare quella forza che le assemblee regionali da sole non hanno?
Può darla la volontà popolare espressa attraverso un voto democratico. Di fronte alla volontà del popolo, soprattutto se espressa in modo chiaro e plebiscitario, sarà molto più difficile resistere alla richiesta di maggiore autonomia da parte di qualsiasi Governo, a prescindere dal suo colore politico, così come sarà più facile vincere le resistenze della burocrazia romana e del centralismo ministeriale. È esattamente quello che temeva il Governo spagnolo del referendum catalano: una forte e chiara manifestazione di volontà popolare è impossibile da ignorare. Con un’avvertenza molto importante: tutto questo sarà vero se il 22 ottobre andrà a votare una percentuale significativa di elettori. Lombardia e Veneto rappresentano insieme un quarto degli elettori italiani: se l’80 per cento di questi elettori andasse a votare la forza del referendum non potrebbe essere ignorata. Ma vale anche il viceversa: se andasse a votare solo l’8 per cento è chiaro che a Roma si farebbero quattro grasse risate e che l’ipotesi di maggiore autonomia verrebbe seppellita almeno per una generazione. Io sono certo che i Sì si imporranno e con una larga maggioranza, ma la partita politica si giocherà sulla percentuale dei votanti, benché il referendum in Lombardia non preveda alcun quorum e pertanto sarà comunque valido (in Veneto invece è previsto il quorum del 50 per cento). Per questo è così importanti recarsi alle urne il prossimo 22 ottobre. Altrimenti perderemo un treno che non ripasserà per molti anni.
Referendum: a cosa serve più autonomia in Lombardia e Veneto e questo fa bene o no alla vita di tutti?
Le materie su cui le regioni possono chiedere ulteriore autonomia sono molte; 4 competenze esclusive dello Stato: istruzione, ambiente, tutela dei beni culturali e giustizia di pace; inoltre tutte le competenze concorrenti tra Stato e Regioni, che sono una ventina e includono materie come le politiche per il lavoro, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, l’energia, le infrastrutture, il commercio con l’estero, ecc. Si tratta di materie importante e competenze in grado di cambiare la qualità del governo e dei servizi erogati. La Lombardia in questi ultimi 20 anni è stata un modello di governo innovativo e originale, basato sul principio di sussidiarietà e sulla libertà di scelta dei cittadini, che ha portato in settori già oggi di competenza regionale come la sanità o la formazione professionale a riforme che hanno superato il monopolio statalista, aperto al privato sociale e al mercato, innalzato la qualità delle prestazioni, abbassato i costi e ridotto gli sprechi.
Un esempio chiaro di cosa potrebbe cambiare con più autonomia riguarda la scuola. Oggi l’istruzione è l’emblema del centralismo statale che impone le stesse regole, gli stessi assetti e le stesse inefficienza e da Sondrio a Catanzaro. Come sarebbe una scuola gestita in Lombardia dalle elementari all’istruzione superiore secondo il principio di autonomia, con la possibilità di contrattare i docenti, intervenire sugli insegnamenti, i programmi, i rapporti con le imprese e il mercato del lavoro? Quale rivoluzione introdurrebbe la libertà di scelta dei genitori in un sistema finalmente davvero paritario dove ciascun alunno diventa portatore delle risorse che già oggi vengono spese per la sua istruzione, ma che egli può scegliere liberamente a quale agenzia formativa destinare, con strumenti tipo il buono scuola o la dote scuola già oggi sperimentati con successo? È solo un esempio fra i tanti che si potrebbero fare ma dà l’idea di quale sia la portata della posta in gioco. Oggi lo Stato spende circa 5 miliardi per l’istruzione in Lombardia. Con le stesse risorse, anzi forse con meno, sono certo che Regione Lombardia saprebbe offrire un servizio di migliore qualità, più efficiente e più libero in un ambito decisivo per mantenere in futuro quell’eccellenza nel capitale umano che abbiamo ereditato dal passato e che oggi i dati sulla percentuale di laureati e sulla qualità dell’istruzione mettono chiaramente in discussione. Provate a immaginare lo stesso percorso riformista in tutti gli ambiti nei quali si potrebbero esercitare le forme particolari di autonomia.
Non si tratta dunque di sottrarre risorse alle regioni povere, ma di usare meglio quelle che ci sono nell’interesse di tutti e di scommettere sulle capacità di chi ha già dimostrato di saper fare buon uso della propria autonomia. La Lombardia negli ultimi decenni è stato un laboratorio di riformismo reale (basti pensare alla sanità), un modello di cambiamento che ha dimostrato quanto possano essere efficaci e concrete idee come la sussidiarietà, l’apertura al privato sociale e al mercato nell’erogazione di servizi pubblici, il rispetto degli standard qualitativi stabiliti e la libertà di scelta dei cittadini.
Dare più spazi di azione alla Lombardia e al Veneto significa indicare una strada insieme ideale e reale verso un riformismo possibile che non può che far bene a tutto il Paese. Per queste regioni l’appuntamento del 22 ottobre non può essere perduto: occorre andare a votare e votare Sì.