Il governo lombardo nel proporre un referendum per una maggiore autonomia, per una “autonomia differenziata” ex art. 116 Cost., si sta esponendo a un forte rischio politico in un momento, come il presente, di grande sfiducia e disaffezione popolare nei confronti non solo delle Regioni ma in generale nei confronti delle istituzioni tutte e degli uomini che le rappresentano. Se l’affluenza ai seggi fosse scarsa la richiesta referendaria sarebbe esposta a un totale affossamento, pur permanendo in capo alla Regione il potere di attivare di nuovo il procedimento relativo.
Lorenza Violini su queste pagine ha illustrato benissimo il passato travagliato occorso a richieste consimili delle Regioni, richieste tuttavia non accompagnate da consultazioni popolari.
La sfida attuale riguarda anzitutto il concetto stesso di autonomia, si innesta quindi nella lunga vicenda del superamento del centralismo normativo e amministrativo (alla piemontese o meglio alla francese) che ha caratterizzato il nostro paese dall’unità d’Italia. Di fronte alle spinte autonomiste costituzionali, prima dei padri costituenti, poi dei riformatori del 2001, la reazione dello Stato centrale è stata sempre quella di intendere e tradurre la proclamata autonomia nel senso della “esecuzione” normativa, regolamentare e amministrativa, aumentando in sostanza l’apparato in termini di personale e la complessità delle procedure burocratiche del paese. Tale intendimento, da ultimo, è tornato ad affacciarsi anche nel progetto di riforma costituzionale di iniziativa governativa Renzi-Boschi, in particolare per effetto dell’attribuzione allo Stato della competenza per le “disposizioni generali e comuni” in molte materie attribuite alla competenza regionale, e con il vasto potere di intromissione legislativa dello Stato “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (come si esprimeva il quarto comma nel testo delle modifiche all’art. 117 Cost.). Ma il progetto Renzi-Boschi è stato respinto dal popolo italiano con il referendum dello scorso anno e con quel progetto sono state in particolare respinte le restrizioni all’autonomia regionale.
Si è molto sottolineato che, se la procedura diretta ad ottenere maggiore autonomia passasse, la Regione avrebbe maggiori risorse e sarebbe evitato l’andirivieni costituito dai versamenti fiscali da un lato e dai trasferimenti di risorse dall’altro. Occorre chiarire che la procedura di regionalismo differenziato non modifica i meccanismi di finanziamento delle Regioni interessate che continueranno ad essere retti dalle norme sul federalismo fiscale e dalle regole sui trasferimenti dei fondi. Le nuove competenze eventualmente attribuite saranno soggette alle regole di finanziamento già vigenti. Questo potrà di conseguenza anche determinare una riduzione del citato andirivieni quando le nuove competenze non fossero soggette a trasferimenti ma a finanziamento mediante imposizione fiscale in loco. In ogni modo l’incremento di competenze non determinerà sottrazione di fondi ad altre Regioni, semplicemente perché sottrarrà allo Stato soltanto i fondi già utilizzati dallo Stato per esercitare le funzioni nuove nel territorio della regione interessata. E’ a questo punto che potrà emergere il vantaggio dell’esercizio da parte delle Regioni, nel caso cioè in cui la gestione regionale fosse più efficiente e quindi meno costosa di quella statale, il che in definitiva farebbe risparmiare l’intero paese.
In secondo luogo è stato evidenziato il timore che l’avvio del regionalismo differenziato in una regione possa causare disparità di trattamento fra Regioni. La disparità di trattamento tuttavia riguarderebbe la gestione di funzioni e competenze che le Regioni differenziate avrebbero, non la condizione dei cittadini delle stesse, ossia tale disparità non potrebbe riflettersi su un diverso trattamento dei singoli contrario all’art. 3 Cost. Ora la disparità nell’attribuzione di competenze e funzioni è in re, è cioè presupposta dalla stessa norma costituzionale, la quale ha una natura non egualitaria ma piuttosto premiale. Nel caso in questione tutti gli indici lombardi sono virtuosi e si pongono ai vertici nel confronto con le altre Regioni ed anche con lo Stato; il che, facendo un banale paragone con un’azienda, sarebbe come ritenere diseguale e ingiusto attribuire a un lavoratore o a un dirigente che si sia dimostrato particolarmente efficiente ed utile, nuove e più ampie mansioni.
Due dunque sono le ragioni fondamentali del referendum lombardo. La prima sta in questa virtuosità della Regione che indiscutibilmente ha dimostrato di sapersi ben governare, la seconda risiede nel trade-off tra competenze già nominalmente attribuite e reale consistenza delle stesse che — come detto — appare decisamente ridotta dalla normativa statale di attuazione.
A quali maggiori competenze potrebbe aspirare la Regione lombarda? Il ventaglio previsto dall’art. 116 c. 3 può essere amplissimo, con la trasformazione di competenze concorrenti (art. 117 c. 3 Cost.) in quasi esclusive o esclusive oltre all’attribuzione di altre competenze nelle materie della giustizia di pace, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e dei beni culturali. Particolarmente importanti fra le materie concorrenti appaiono ad esempio: istruzione, tutela della salute, ordinamento sportivo, protezione civile, governo del territorio (urbanistica) previdenza complementare e integrativa.
E’ ovviamente difficile immaginare che l’autonomia differenziata possa sortire una così ampia attribuzione; realisticamente essa potrebbe ritenersi un successo se solo in alcuni di quei campi fossero attribuite alcune funzioni e competenze importanti. Si pensi ad esempio all’istruzione con la possibilità di incidere sui programmi, sulle modalità di chiamata degli insegnanti, sull’armonizzazione con i corsi professionali e con le esperienze di scuola-lavoro, sul finanziamento della scuola paritaria.
Occorre infine sgombrare il campo da un paragone spesso richiamato a sproposito, quello cioè delle rivendicazioni catalane. Il governo catalano ha fatto proprie le richieste del movimento separatista catalano dirette ad una dichiarazione di indipendenza che si pone fuori della legittimità costituzionale spagnola e fuori altresì da ogni previsione dello stesso statuto catalano di autonomia. Si tratta di rivendicazioni apertamente divisive rispetto alle più ampie comunità di appartenenza.
L’Europa oggi, che dovrebbe trovare una maggiore unità, che dovrebbe federarsi per essere in grado di rispondere alle sfide epocali che la riguardano (le grandi migrazioni, il terrorismo, la globalizzazione della finanza e dei mercati), è invece soggetta a spinte divisive al suo interno che provengono da Stati (Brexit) o da regioni (la Catalogna, i Paesi Baschi, la Scozia, la Corsica, i fiamminghi belgi, l’Est Ucraina). Oggi l’Europa può accettare ed anzi può giovarsi dalle richieste di vera autonomia — che è vera se mantiene un legame di lealtà con la storia unitaria dello Stato di appartenenza —, mentre i separatismi e le secessioni sono fenomeni distruttivi che minano alla base la possibilità di una maggiore integrazione europea. Ci dobbiamo augurare che i catalani, che nella maggioranza non sono separatisti, avvertiti anche del disastro economico cui stanno andando incontro (fuga di banche e imprese, svalutazione, danni al turismo ecc.) tornino sui loro passi e cerchino di negoziare con Madrid in termini di maggiore autonomia. Il che tuttavia starebbe a confermare che l’autonomia comporta spesso una vera battaglia al centralismo statalista.