Andiamo al sodo: a rischiare di più è senza dubbio Luca Zaia, che ha posto il quorum della metà più uno dei votanti per la validità del referendum veneto che reclama più autonomia. Roberto Maroni ha schivato il problema, anche se è sull’affluenza alle urne che si valuterà la riuscita dell’operazione pure in Lombardia. La vittoria del Sì, infatti, non è in discussione, perché l’abile formulazione dei quesiti ha evitato la formazione di un “fronte del No”, cui non se la sono sentita di aderire né i 5 Stelle, né i democratici, anche se con posizioni goffe come il “sì differente” teorizzato dal sindaco Pd di Bergamo Giorgio Gori.
Dimostrando una rilevante dose di furbizia, il governatore lombardo ha posto l’asticella politica della riuscita della consultazione al 34 per cento, che non è solamente un terzo del corpo elettorale. E’ soprattutto — ha spiegato — l’affluenza del referendum costituzionale del 2001, quello che approvò la riforma che le due regioni a guida leghista chiedono di attuare pienamente, rivendicando la competenza in 23 materie ora affidate allo Stato.
Per certi versi la doppia consultazione nordista sembra un relitto del passato. Dell’epoca in cui la Lega rivendicava la secessione, o quantomeno la devolution alla scozzese. Di acqua nel Po e nei suoi affluenti ne è passata moltissima, il federalismo non va più di moda, e la Lega alla Salvini è molto più interessata a trasformarsi in partito nazionale a vocazione sovranista che in avvocato difensore delle regioni settentrionali.
Una prima chiave di lettura è quindi tutta interna al Carroccio, dove Maroni continua a rappresentare il polo opposto a Salvini. E quindi con una buona affluenza alle urne il governatore recupererebbe forza nei confronti del successore alla guida del partito che fu di Bossi. Maroni potrebbe affacciarsi di nuovo da protagonista sulla scena nazionale, dal momento che avrebbe la possibilità di sventolare un mandato ampio a trattare con il governo centrale più autonomia per la Lombardia. E Salvini potrebbe avere più di un grattacapo interno, visto anche che il presunto asse di ferro con Giorgia Meloni ha mostrato la corda proprio sul referendum lombardo-veneto, che la leader di Fratelli d’Italia ha aspramente criticato. Allo stesso tempo, il Sì di Berlusconi rilancia Maroni nel ruolo di interlocutore privilegiato del redivivo (ex) cavaliere nel mondo leghista, a fianco di quel Bossi che — per quanto ai margini — rimane punto di riferimento per molti e che critica sempre più spesso l’attuale leader del Carroccio.
Ben diversa, e defilata, la posizione di Zaia, che nelle contese interne al suo partito non si è mai schierato apertamente da una parte o dall’altra. Un comportamento accorto, che ne fa un punto di riferimento per tutti. Certo, per lui sfondare la fatidica soglia del 50 per cento più uno dei votanti sarà durissima, anche se in Veneto il sentimento identitario è infinitamente più forte che non in Lombardia, entità più astratta, nella quale i propri cittadini faticano a riconoscersi. Provate solo a chiedere a un mantovano se si sente più vicino a un veronese, o a un valtellinese.
Per Zaia però una vittoria referendaria potrebbe essere il definitivo trampolino di lancio verso ruoli di rilievo nazionale. Nei mesi scorsi si era parlato di lui come possibile punto di sintesi del centrodestra alla ricerca di un candidato premier alternativo a Berlusconi, tuttora incandidabile, e a Salvini, che gli azzurri non riescono a digerire. Nonostante il Rosatellum non chieda più l’indicazione preventiva di un candidato premier, Zaia crescerebbe nella possibilità di essere un buon nome di mediazione fra le varie anime del centrodestra, che oggi sente il vento in poppa e naviga verso una vittoria elettorale a primavera, impensabile sino a pochi mesi fa.
Una vittoria duplice, con una buona partecipazione in Lombardia e il superamento del quorum in Veneto, sarebbe poi l’ideale trampolino non solo per la riconferma di Maroni (in Lombardia si voterà in contemporanea con le politiche), ma si trasformerebbe anche nella rincorsa per una netta affermazione del centrodestra nei collegi uninominali previsti nella nuova legge elettorale.
Certo, lo scenario sarebbe destinato a cambiare in modo significativo nel caso di un flop referendario: in quel caso il Nord diventerebbe contendibile da parte della sinistra e dei 5 Stelle, adesso ai margini della scena nelle due regioni più ricche del paese.
Quanto al merito della consultazione, questo è decisamente secondario: il referendum è consultivo e assolutamente non necessario per intavolare una trattativa con il governo per ottenere quei poteri già previsti dall’articolo 116 della Costituzione. L’Emilia Romagna ha bruciato tutti sul tempo, aprendo il tavolo senza alcun referendum. La Catalogna, insomma, è anni luce lontana dalla Pianura Padana.