Palla al centro: in tutti i sensi. L’esito del referendum veneto-lombardo sull’autonomia sposta la partita dall’asse Venezia-Milano a Roma; e se fin qui molto è stato propaganda, adesso si va sul concreto spinto. Perché è in gioco la credibilità di tutte le parti in causa: delle due Regioni nel tradurre la volontà popolare in risultati concreti; dello Stato di accogliere le richieste e cominciare così a smantellare almeno qualche scaglia di quel centralismo che lungi dal diminuire è venuto crescendo negli ultimi anni.



Si profila tuttavia già un primo ostacolo: la controparte dei presidenti di Veneto e Lombardia è un governo che ha ormai le settimane contate, e di fatto è costretto a poco più dell’ordinaria amministrazione. Toccherà al prossimo aprire il tavolo di trattativa; ma tra campagna elettorale, voto vero e proprio e trattative per la nascita del nuovo esecutivo (prevedibilmente lunghe e complesse, visto che indipendentemente dalla legge elettorale non c’è oggi e non ci sarà domani un vincitore sicuro), rischia di passare un anno o giù di lì.



Di sicuro il supporto che Zaia e Maroni cercavano e che hanno ottenuto (anche se per il governatore lombardo si è rivelato di gran lunga inferiore) è un’arma a doppio taglio: perché se le aspettative di chi ha dato loro il consenso dovessero andare deluse, rischierebbe di innescarsi una pericolosa reazione a catena, che nel lungo termine potrebbe anche preludere a scenari di tipo catalano. In questo senso, non sarebbe giusto addossare la responsabilità ai due soli governatori: spetta a tutte le forze politiche farsi carico di sostenere la trattativa con Roma, visto che quasi tutte (con la sola eccezione di Fratelli d’Italia) alla vigilia si erano espresse a favore del Sì referendario. Certo, bisogna capire quanto quell’adesione fosse sentita, e non solo strumentale; sta di fatto, almeno sulla carta, che le basi numeriche per superare lo scoglio finale, cioè il voto a maggioranza assoluta delle due Camere all’accordo Stato-Regioni, ci sono tutte.



Lo scetticismo peraltro è di rigore, anche se non vuol dire rassegnazione. I referendum sono sacrosanti; ma servono per porre esigenze, non per risolverle: compito che spetta alla politica in primis. E qui ci sarebbero alcune domande cruciali da porsi: per esempio, perché ieri la Dc e oggi la Lega, quando da Roma a Venezia e Milano esisteva una filiera di governi dello stesso colore, e con importanti esponenti di entrambi nell’esecutivo (Rumor e Bisaglia ieri, Maroni e Bossi oggi), non sono riuscite a realizzare ciò che chiedono al governo di oggi? E perché solo oggi, a distanza di sedici anni dalla riforma della Costituzione, le Regioni si muovono per aprire il confronto con Roma, da chi lo fa via referendum a chi segue la procedura ordinaria? Dalla Lombardia al Veneto alla stessa Emilia-Romagna dell’ultima ora, respirare un che di strumentale sarà anche un pensiero malvagio; però tutt’altro che peregrino. La politica non è polemica, ma lavoro duro e paziente per portare a casa il risultato: come hanno fatto nell’immediato dopoguerra figure come De Gasperi in Trentino-Alto Adige, e Tessitori in Friuli-Venezia Giulia.

Resta un’annotazione sulla disparità di risultato tra Veneto e Lombardia: se Zaia ne esce premiato e rafforzato, Maroni deve registrare un oggettivo indebolimento, specie sul piano interno alla Lega. Le parole del vice segretario federale Giorgetti alla vigilia del referendum sono state chiarissime; e non è un mistero che da tempo Salvini e Maroni siano ai ferri corti sulla questione delle alleanze nel prossimo consiglio regionale lombardo. L’impressione è che la partita referendaria abbia anche un risvolto in casa leghista, e che l’esito vero sia legato alle prossime elezioni politiche. D’altra parte, il contrasto tra la posizione autonomista delle due regioni a guida del Carroccio e la linea sovranista e nazionalista del segretario del partito è fin troppo evidente e stridente. E le contraddizioni, prima o poi, vengono al pettine.