Nell’arco di una decina di giorni, Matteo Salvini è passato da vincitore virtuale della partita del Rosatellum a perdente virtuale del referendum lombardo-veneto. La prima cattiva notizia di una domenica elettorale rigorosamente a nord del Po è che nella Lombardia a trazione leghista il referendum autonomista ha registrato una sconfitta netta su tutti i fronti. La débâcle politica è stata appena meno grave di quella organizzativa e istituzionale. Com’è stato possibile che la Regione Lombardia (ente pubblico) abbia fallito clamorosamente la prova sul terreno dell’efficienza ed affidabilità, sul quale la Lombardia – intesa come sistema economico, sociale e civile – raramente cade? Com’è stato possibile che ciò sia avvenuto come output di una costosissima machine elettorale digitalizzata?
Il nome della sconfitta è comunque quello di Roberto Maroni: primo presidente leghista della Lombardia, in scadenza di un mandato pieno. Il referendum autonomista – hanno correttamente arguito molti – era probabilmente pensato per lucidare un po’ l’immagine elettorale del governatore dopo una legislatura non certo brillante. E sarà pur vero che la neo-Lega di Salvini sta archiviando l’ala storica “ministeriale” incarnata da Maroni dopo aver “ucciso il padre” Umberto Bossi. Da ieri, tuttavia, il caposaldo lombardo (governato dal centro-destra da 22 anni) è un po’ meno tale: per un errore blu da parte della Lega di Maroni. Il quale, in marzo potrà sempre contare sul drive di un election-day che si annuncia favorevole al centrodestra su scala nazionale. Ma quel giorno se la dovrà vedere – per il Pirellone – quasi certamente con Giorgio Gori.
Il sindaco Pd di Bergamo – ex manager berlusconiano – ha disobbedito alla linea astensionista del partito: si è messo in fila ai seggi, dando l’esempio a migliaia di suoi concittadini. L’affluenza della provincia bergamasca – record in Lombardia con il 45% – è risultata così mediaticamente intestata a Gori, benché ovviamente sia stato maggioritario il contributo dello zoccolo duro leghista. Nel prossimo duello fra lui e Maroni l’autonomia potrebbe dunque essere argomento inservibile per il centrodestra mentre promette addirittura di essere l’humus possibile di un “nuovo Pd”: renziano riveduto e corretto in salsa padana. Ma che già un testa a testa per le regionali lombarde venga ritenuto possibile o interessante è una notizia. Proprio quando invece poco più in là, oltre il Mincio, si è avuta conferma che fra il Pd e “l’altra Lega” continua a non esserci partita.
Già, il Veneto. Qui la pessima notizia per Salvini è l’affermazione “catalana” di una Lega che non ha affatto cancellato il Nord dalla sua ragione sociale. E che è guidata da un governatore non devoluzionista come il Senatur, ma neppure attratto dall’euro-populismo come l’attuale segretario della Lega. Un buon ministro dell’Agricoltura, Zaia, come lo sono stati innumerevoli esponenti della granitica Dc dorotea del Nordest: alla cui tradizione non è estraneo il “gentilonismo”, format e stile di governo accreditato per il dopo-voto. Perché allora Zaia dovrebbe essere sacrificato ai giochi di tavolino fra Salvini e Berlusconi? Perché gli si dovrebbe preferire Antonio Tajani? Perché i leader nazionali del centrodestra dovrebbero affannarsi attorno ai pochi e incerti punti percentuali delle svariate scatoline centriste e snobbare il 57% dei veneti che hanno premiato Zaia dopo un quasi-boicottaggio politico-mediatico del referendum?
In attesa delle risposte, il referendum veneto non sembra privo di impatti neppure sulla principale vicenda politica nazionale di questi giorni: la nomina del governatore della Banca d’Italia. Nella regione governata da Zaia la provincia con l’adesione più alta è stata quella di Vicenza, con il 62,7%. Tutti voti “con le mani” a favore di Zaia e dell’autonomia veneta. E “con i piedi” contro la vigilanza bancaria “di Roma”.