Ci sono tre peccati che può commettere un leader politico in fase di campagna elettorale. Il primo è dimostrare eccessivamente di esserlo, in campagna elettorale, qualunque cosa faccia o dica: non è così, dare l’impressione di essere sempre in campagna elettorale irrita gli elettori; il secondo, sbagliare gli argomenti della campagna elettorale, perché distoglie l’elettorato e lo confonde; il terzo, sbagliare nello scegliersi i nemici della campagna. Matteo Renzi, sul caso Bankitalia, li ha commessi tutti e tre. I suoi fedelissimi stanno ripetendo l’errore sul caso delle pensioni.



Vediamo perché. Lo scandalo delle banche fallite, al di là delle responsabilità di tutti e di ciascuno che non saranno mai veramente determinate, tantomeno dalla commissione-farsa affidata a Pier Ferdinando Casini “in articulo mortis” della legislatura allo scopo preciso di non farle concludere niente, è passato nell’opinione pubblica come uno scandalo interno al Pd. Solo i renziani invasati hanno dubbi al riguardo. 



Non vuol dire che sia così nella realtà: ma è così nella percezione generale. Sul versante Montepaschi, è ovvio: la banca senese era da decenni feudo del Pd, e Renzi è toscano, nel Pd toscano che prosperava attorno al Monte è nato e cresciuto, e la maggior parte degli italiani, non essendo toscana, non sa quanto distanti possano essere un toscano da un altro anche all’interno della stessa città: quindi il nesso Renzi-Montepaschi è forte e diretto, tanto più dopo il disastroso tentativo di far salvare la banca dal suo amico Jamie Damon di JpMorgan… Aggiungi a questo il fronte Banca Etruria, con la vicepresidenza del padre della Boschi, e anche il crac di Banca Etruria è percepito “a debito” del Pd. Quindi, se il segretario piddino non fosse come al solito imbevuto di ego narcisista, starebbe alla larga dall’argomento-banche quanto Dracula dall’aglio. Invece ci si è tuffato e avvoltolato come “un porco in brago”, per citare un toscano un po’ più in gamba, Dante Alighieri. 



In particolare, sempre essendo narcisista e vendicativo, ha attaccato Visco: secondo errore, perché Visco non lo conosce nessuno, ma proprio nessuno, tanto che lo stesso Berlusconi quando glielo proposero come governatore, replicò: “Ma chi, Visco il comunista?” pensando al più celebre ex-ministro delle Finanze. Quindi l’eventuale consenso per la battaglia renziana anti-Visco riguarda poche centinaia di migliaia di “illuminati”. Terzo errore: col simbolico ritorno in Borsa del Montepaschi la fase critica della crisi bancaria è percepita come archiviata, certo fra macerie, mal di pancia e mugugni, ma è alle spalle, e i più hanno solo voglia di dimenticarsene, salvo tra i pochi danneggiati diretti: quindi, che un leader politico (proprio lui, poi!) la rispolveri proprio adesso puzza di campagna elettorale lontano un miglio.

E veniamo alle pensioni. Il parallelismo brutale tra longevità e lavoro è odiato da tutti noi. Il sogno di una vecchiaia agiata a senza le incombenze del lavoro era un sogno di tutti ed è stato cancellato, confiscato. Siamo arrabbiatissimi, per questo. Quindi in teoria quel che hanno fatto ieri Maurizio Martina e Lorenzo Guerini, renziani pensanti ma renziani, sarebbe giusto: si sono formalmente schierati contro l’innalzamento dell’età pensionabile innescato, per un automatismo della legge Fornero, dalla constatazione Istat sull’aumento dell’attesa di vita media a 65 anni. In teoria, però: perché in pratica sanno benissimo che bloccare l’inevitabile è impossibile. E quindi dicono cose che non potranno mantenere solo per scavallare l’appuntamento elettorale, perché c’è un annetto prima che decorra l’aumento e quindi si può blaterare fino a marzo la ferma volontà di cambiare la norma, incassare il voto, e tradirlo. Ma così non si fa… la gente non ha l’anello al naso, di fronte alle promesse smaccatamente false te la fa pagare.

Ritardare la pensionabilità è purtroppo inevitabile. Bloccarla significa pretendere di fermare gli alisei o la processioni degli equinozi. Anche qui: errore di tema e di tempi. Il Pd è visto da tutti come il partito del rigore pensionistico, la stessa riforma Fornero, pur varata dal governo del centrista Mario Monti, lo è stata grazie al voto del Pd. Per giunta, proprio ieri la Consulta ha respinto le eccezioni di anticostituzionalità che erano state opposte alla legge con la quale Giuliano Poletti, ministro piddino di un governo renziano, limita a pochi milioni di pensionati la rivalutazione degli assegni bloccati da Monti nel 2012-2013, facendo spendere allo Stato 2,8 miliardi anziché 30 e facendo sfumare quindi 27,2 miliardi dalle tasche dei pensionati. Questo è il Pd, agli occhi dei medesimi pensionati: il partito che gli ha soffiato 27,2 miliardi di euro, per iniziativa di un ministro scelto da Renzi. Anche su questo fronte, quindi, la tirata dei renziani a tardiva tutela degli anziani suona elettoralistica e sbaglia il bersaglio perché la gente lo sa che chi campa di più, lavora di più e che senza Poletti forse avrebbe recuperato più soldi. 

Che dire: tra l’appoggio determinante di Verdini al Senato sul Rosatellum, la pietosa campagna del leader maximo in treno e questi errori tattici, si direbbe che il vertice dei democratici stia facendo di tutto per consegnarsi mani e piedi allo stesso Verdini e agli altri berlusconiani più o meno travestiti con cui evidentemente si preparano a governare dall’aprile prossimo. È l’unica soluzione che, si direbbe, sia “nei numeri” dei sondaggi elettorali. Si tratta di capire chi guiderà l’innaturale tandem: di questo passo, lo guiderà Berlusconi.