Stanare l’avversario per indurlo a ripiegare, o a commettere un errore. Questa è sembrata finora la partita tra Madrid e Barcellona. Ma ieri la situazione è precipitata e tutti gli spazi di mediazione ora sembrano chiusi. Di fronte alla decisione del governo centrale di applicare l’articolo 155 della Costituzione, il presidente catalano Carles Puigdemont, non avendo trovato la strada per evitarlo, ha deciso di dare l’ultima parola al Parlamento invece che alle urne (“avrei indetto le elezioni se vi fossero state le garanzie”).



L’ipotesi di uno scambio politico — elezioni in Catalogna contro la sospensione della procedura di commissariamento — è così naufragata e i tentativi dell’autonomia catalana di rosicchiare margini di trattativa, nella convinzione che il tempo giocasse a favore di una qualche soluzione, sono andati a sbattere nell’intransigenza di Rajoy e del governo di Madrid. Ne abbiamo parlato con Darío Menor Torres, corrispondente in Italia del quotidiano spagnolo El Correo.



Proviamo di ricomporre quanto è accaduto nelle ultime ore. Si è parlato di elezioni.

Secondo alcuni rumors Puigdemont era disponibile ad indirle per disinnescare la procedura dell’articolo 155. Quello che è successo dietro le quinte non lo sappiamo. Potrebbe esserci stato un negoziato con la mediazione del presidente basco: elezioni in Catalogna in cambio dello stop al commissariamento e della scarcerazione dei due politici indipendentisti catalani.

Secondo lei che cos’è accaduto? L’annuncio di elezioni sembrava certo.

E’ possibile che il governo centrale fosse disponibile a sospendere l’articolo 155 a patto di avere nero su bianco il voto in Catalogna. Così non è stato: Puigdemont ha accusato Madrid di non fornire sufficienti garanzie e ha rimesso la decisione finale sull’attuazione del referendum al parlamento catalano.



E la liberazione degli indipendentisti?

Se la trattativa è naufragata per questo, è la prova che Puigdemont non sa cos’è lo stato di diritto. Sánchez e Cuixart non sono stati messi in carcere dal governo, ma da un giudice. Non sono prigionieri politici, hanno commesso un reato.

Cosa farà ora il parlamento catalano?

Prima dobbiamo chiederci: perché Puigdemont non ha dato spiegazioni davanti all’assemblea di chi rappresenta i cittadini? Ora il parlamento dichiarerà l’indipendenza. I partiti indipendentisti non hanno la maggioranza dei voti ma hanno la maggioranza dei seggi. Se all’ultimo non ci saranno defezioni, l’indipendenza sarà approvata. Questo atto significherà il blocco immediato dell’autonomia della Catalogna. 

Perché Puigdemont e Junqeras agiscono così?

Le loro scelte seguono una doppia logica, basata per metà sul vittimismo e per metà sullo scontro. Questa escalation politica e istituzionale è colpa loro. Il filo rosso che l’ha guidata sembra quello del “peggio si mette per la Catalogna, meglio è”: una strategia del vicolo cieco. Basti pensare che il referendum per l’indipendenza non era nel loro programma elettorale. 

Secondo lei l’indipendentismo ha allargato la sua base di consenso?

Dieci anni fa la percentuale di indipendentisti in Catalogna era intorno al 25 per cento, oggi è al 45.

E di fronte alla crisi la gente sta cambiando opinione?

Difficile dirlo. Secondo alcuni sondaggi usciti negli ultimi giorni sui giornali catalani, il consenso degli indipendentisti è cresciuto dello 0,1 per cento. Tutto questo per un decimo di punto? Ma a quale prezzo? Disagi sociali crescenti, aziende che se ne vanno, nessun riconoscimento da parte della comunità internazionale, a cominciare dall’Unione Europea.  

Da come si sono messe le cose Puigdemont appare già sconfitto. E’ così?

Lui e i suoi hanno preso una terribile cantonata. Si appellano al popolo, ma la loro terminologia è fascista, totalitaria. Di quale popolo parlano? Negli ultimi dieci anni si è votato 7-8 volte in Catalogna, ma gli indipendentisti non hanno mai avuto la maggioranza. 

Perché secondo lei?

Perché il loro indipendentismo non unisce ma divide la gente. C’è poi un’altra cosa importante che non si dice.

Quale sarebbe?

Che è tutta una questione di soldi. Gli indipendentisti vorrebbero una maggiore autonomia fiscale perché la Catalogna è la regione più ricca della Spagna. Se il governo centrale fosse arrivato ad un accordo fiscale più favorevole a Barcellona, non saremmo arrivati a questo punto. 

Dunque anche Madrid ha fatto degli errori.

Assolutamente sì. Riforme a parte, il referendum del 1° ottobre è stato gestito in modo disastroso. Il giorno dopo il ministro dell’Interno avrebbe dovuto chiedere scusa e dimettersi. Ma gli errori del governo non giustificano in alcun modo una situazione da colpo di stato.

In Catalogna si agita lo spettro, anzi la “bomba atomica” dell’articolo 155.

Il 155 sembra evocare qualcosa di traumatico ma sono timori ingiustificati. Cesserebbe il mandato di Puigdemont e della Generalitat, al loro posto arriverebbe un tecnocrate che scioglie il parlamento e manda tutti a votare. 

Secondo lei ci saranno degli scontri?

Non credo. Se accadesse, sarebbero tra catalani e catalani, tra indipendentisti a oltranza e tutti quei cittadini ormai esasperati da questa situazione. 

(Federico Ferraù)