L’ultimo sondaggio ufficiale piovuto sulle teste dei dirigenti democratici ha sparso il panico: il Pd è dato in caduta libera, al 25,4 per cento secondo l’Istituto Index. E voci di rilevazioni riservate dicono che in realtà le cose starebbero persino peggio. A certificarlo potrebbero essere le elezioni regionali siciliane fra una settimana: l’incubo per i renziani sarebbe quello del quarto posto per il loro portacolori, Fabrizio Micari, che potrebbe essere scavalcato non solo dai candidati di centrodestra e del Movimento 5 Stelle, ma anche dal leader della sinistra siciliana Claudio Fava. L’impatto psicologico sarebbe fortissimo, la stessa segreteria di Renzi per la prima volta potrebbe essere messa in discussione da una rivolta dei colonnelli che, in fondo, lo hanno sempre mal sopportato.



Di fronte alle innegabili difficoltà il segretario dem sembra aver deciso di reagire nell’unica maniera che gli è consona: accelerare, per costringere i detrattori a inseguirlo. La conferma è attesa dal palco del museo ferroviario di Pietrarsa, ma in questa fase accelerare ha una sola declinazione: andare all’attacco di tutto e di tutti come se fosse il leader di un partito di opposizione.  



Il primo a farne le spese è stato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che mai avrebbe pensato di avere nel leader del proprio partito il principale ostacolo in una partita delicata come quella della nomina del governatore della Banca d’Italia. Gentiloni, che si era appena caricata la croce delle critiche per la richiesta di ben otto fiducie per far passare al più presto la legge elettorale, non ha potuto fare altro che resistere alle pressioni forsennate del Pd, anche perché a sostegno di Visco sin dall’inizio erano schierati tanto il presidente della Repubblica, Mattarella, quanto il numero uno della Bce, Mario Draghi. E il recupero nel rating del paese, il primo dopo anni in discesa, conferma che la strada era quella giusta.



La battaglia per la Banca d’Italia si lascia dietro per Renzi due effetti: da una parte il minimo storico nei rapporti con il Quirinale, dall’altra l’aver definitivamente bruciato Paolo Gentiloni per il dopo elezioni, essendo chiaro che il Pd a trazione renziana non si fida più di lui. Nessun messaggio in questo senso poteva essere più chiaro della polemica assenza dei ministri renziani (Delrio, Martina, Lotti e la sottosegretaria Boschi) al consiglio dei ministri che ha ratificato la conferma di Visco.

Un altra vittima eccellente delle accelerazioni renziane è il presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha polemicamente abbandonato il Pd dopo le cinque fiducie poste a Palazzo Madama sulla legge elettorale. Una violenza le ha definite, indice di un metodo sbrigativo che spaventa molti democratici. 

Renzi sembra contare molto sul poco tempo che vi sarebbe per tentare una spallata nei suoi confronti anche ne caso in cui le elezioni siciliane avessero un esito particolarmente negativo. I prossimi campi di battaglia che si profilano all’orizzonte sono la scelta del nuovo numero uno della Consob e la commissione d’inchiesta sulle banche. Lì l’ex premier e i suoi contano di riprendersi rivincite un po’ nei confronti di tutti, di Visco e di Bankitalia in primo luogo, anche se il governatore sembra intenzionato a difendere con forza l’operato proprio e della vigilanza, almeno a giudicare dalla mole dei documenti che da via Nazionale sta trasferendosi a Palazzo San Macuto.

Un’altra accelerazione alle viste è quella dello ius soli. E se ad annunciarla è il ministro dell’Interno Minniti, c’è da giurare che un tentativo ci sarà. Difficile però dire come possa andare a finire, dal momento che — per bocca di Maurizio Lupi — Alternativa Popolare ha già detto no, persino se il governo dovesse porre sulla legge la questione di fiducia. Sulla carta l’impresa pare temeraria, ma in mezzo ci sono gli accordi per gli apparentamenti elettorali, quindi pare arduo definirne adesso il finale. 

Toccherà a Gentiloni decidere se accedere a un azzardo che Sergio Mattarella eviterebbe volentieri: l’obiettivo del Quirinale è portare a termine senza strappi o scivoloni la sessione di bilancio, per mantenere poi il governo in carica nella pienezza dei poteri anche nella fase delicata della gestione delle elezioni. Renzi pare disinteressarsi a questo, ma le conseguenze sul dopo voto potrebbero essere pesanti. La tattica dell’uno contro tutti potrebbe non pagare, anche se la nuova legge elettorale gli consentirà di scegliere la quasi totalità dei parlamentari futuri sulla base della fedeltà. 

Per lui la vera scommessa sarà nel riuscire a tessere quelle alleanze che potrebbero fare la differenza nei collegi uninominali. Ci sono trattative in corso con formazioni minori, dai socialisti ai verdi, cui Renzi ha chiesto di coagularsi in una o due liste. Il vero nodo però si chiama Mdp, perché quella presenza a sinistra potrebbe costare molto cara, decine di seggi persi per un nonnulla. E in quel caso il Pd si troverebbe a giocare la partita del dopo voto (intese larghe, o larghissime) da una posizione di debolezza estrema per colpa della testardaggine di Renzi.