Il 1° ottobre 2017 in Spagna hanno perso tutti. Il governo, con un premier prima sconsiderevolmente passivo, colpevolmente inerte e incapace di proposta politica, poi — a buoi scappati dalla stalla — privo di ogni razionale cautela democratica (seppur legittimato dalla Costituzione). Il movimento autonomista tutto che, mal consigliato da una cieca sete di potere e di rivalsa, non ha esitato a mettere a rischio la vita di tanti cittadini, per incassare solo l’appoggio della minoranza dei catalani (seppur consistente). La monarchia che, di fronte allo sfascio dell’unità del Paese, non ha profuso favella lasciando la parola agli eventi (seppur ciò avesse voluto dire guerra civile). L’Europa che si è ritagliata, come al solito, un imbarazzato quanto imbarazzante silenzio (sebbene tutti, a partire dai contendenti, avessero fatto appello a una sorda Bruxelles). La democrazia, a cui tutti hanno fatto stucchevole riferimento, ma che nessuno ha interpretato né come stato di diritto (contravvenendo al dettato della Costituzione), né — tantomeno — come stato dei diritti umani e civili (negando — con una becera quanto gratuita e, comicamente, inefficace violenza — il diritto di un popolo a esprimersi prima che ad autodeterminarsi).



Ma sul campo, guerreggiato, della Catalogna (e di Barcellona in particolare) è rimasto il feretro della Politica. La tanto bisfrattata arte della mediazione, del confronto sanguigno, ma anche del reciproco sforzo a trovare — per il bene comune — una soluzione condivisa e possibile. Quella politica che è responsabilità, arcigna caparbietà del sogno, ma — infine — fiero buon senso del reale.



Ecco, tutto questo, domenica, in Spagna (perla d’Occidente), si è perso

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