Il grido di dolore del direttore emerito di Repubblica, Ezio Mauro, sulla crisi della sinistra italiana è apparso professionalmente onesto, politicamente centrato e – soprattutto – personalmente coraggioso. Mauro venne nominato primo successore di Eugenio Scalfari quarantott’ore prima che Romano Prodi e l’Ulivo battessero al voto Silvo Berlusconi. Quasi vent’anni dopo, all’inizio del 2016, Mauro ha ceduto il timone di Repubblica a Mario Calabresi mentre a Palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi, che riuniva gli incarichi di premier e di segretario del Pd ed era ancora lontano dalla débâcle referendaria.



E’ comprensibile il mix di amarezza, delusione e sorpresa di Mauro: appena 18 mesi dopo la sinistra italiana si presenta alla scadenza elettorale dilaniata al punto da mettere a rischio perfino una legge di bilancio molto delicata, ultimo atto di un quinquennio pieno al governo. Ed è logico che Mauro si senta interpellato in prima persona e senta il dovere di interrompere, virtualmente, il viaggio a ritroso nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Fresco della memoria di Lenin che scende alla stazione di San Pietroburgo e impone all’impero zarista il realismo vincente della sinistra sovietica, Mauro richiama la sinistra italiana a quella che – secondo lui – è una realtà impossibile da non osservare, da non affrontare, da non vincere: gli avversari restano “le destre” (quella incarnata da Silvio Berlusconi ma anche quella cavalcata da Beppe Grillo); ed esiste uno spazio enorme di domande politiche, economiche e sociali cui una sinistra degna di questo nome non dovrebbe aver difficoltà a rispondere. Eppure…



Nessuno può permettersi di chiedere a Mauro “lui dov’era” nella Seconda Repubblica. L’incipit non scritto del suo editoriale recita: “Certo, io ero il direttore di Repubblica, per vent’anni ho intonato io ogni mattina la preghiera collettiva della sinistra italiana”. Il punto non è come lui ha fatto il direttore del quotidiano di riferimento della sinistra italiana. La questione resta cos’ha fatto la sinistra italiana mentre lui dirigeva Repubblica. E di questo non si può chiedere conto a lui, che del resto ieri ha preferito non entrare nel merito: lasciando però sul tavolo tutte le curiosità storico-politiche.



Per esempio: la vera responsabilità di Massimo D’Alema sta nell’aver pugnalato, nei giorni scorsi, il governo Gentiloni e il tentativo ulivista di Giuliano Pisapia, oppure nell’aver fatto dell’Opa Telecom, quasi vent’anni fa, una sorta di assalto fuori tempo al Palazzo d’Inverno del capitalismo italiano? Ancora: Matteo Renzi ha peccato di liderismo e trasformismo nell’infrangere il sogno democrat della sinistra italiana, oppure è stato da subito un prodotto della storica “sinistra bancaria toscana”, da Mps a Banca Etruria?

La quasi secolare diatriba fra massimalisti e riformisti – codificata perfino nei manuali scolastici – può essere ancora una schema interpretativo utile: per giornalisti e politici. Ma quello della sinistra italiana non sembra solo uno psicodramma: chissà quale ne sarebbe stata l’analisi da parte dei bolscevichi del 1917.