Ha cominciato a fare capolino alla vigilia delle elezioni siciliane, quasi prevedendo il baratro che stava per aprirsi davanti al partito che aveva fondato. E all’indomani del voto è diventato il suggeritore palese di un percorso per salvare il salvabile.
Se sia o meno una “mission impossible” quella che Walter Veltroni si è assegnato si capirà solo nelle prossime settimane. Per ora i suoi interventi, passando da un salotto tv all’altro, sembrano i più lucidi consigli per uscire dalle secche in cui il renzismo ha ficcato il Pd. Al punto che in molti hanno cominciato a guardare a lui come possibile leader di ricambio rispetto al segretario in carica.
Lui, il diretto interessato, per ora ufficialmente nega di preparare un ritorno da protagonista, ma mai dire mai. Stare defilato potrebbe portarlo a essere iscritto nella lista delle “riserve della Repubblica”, cui il presidente Mattarella potrebbe dover ricorrere dopo il voto in caso di stallo fra i partiti. Per il momento Veltroni è prodigo di consigli a Renzi. Riconosce che il leader del Pd è oggetto di grande acrimonia, ma lo pressa perché faccia gesti di unità, sappia includere e accettare le critiche.
Veltroni chiede a Renzi di fare “qualcosa di sinistra”, e cioè approvare prima della fine della legislatura ius soli e biotestamento. Un gesto di apertura che — guarda caso — coincide con le richieste di Giuliano Pisapia, che dal palco della sua convention per la verità chiede ai democratici anche discontinuità. Il che significa un rotondo no a Renzi candidato premier del centrosinistra da ricostruire. Richiesta pesantissima, cui Veltroni non arriva.
Logico che l’onore della prima mossa spetterà a Renzi, oggi dal palco della direzione. Nel campo del centrosinistra la situazione è magmatica, sfiora il caos, che equivale alla prospettiva di una sconfitta cocente alle elezioni politiche, con sondaggi al minimo storico dell’era renziana, sotto il 25 per cento.
Nei confronti dei suoi oppositori interni Renzi ha in mano la bomba atomica di negare ai Franceschini e agli Orlando la ricandidatura, in virtù della norma che limita a tre i mandati parlamentari. Salvo deroghe, ovviamente. Il fall out di questa esplosione nucleare, però, non potrebbe che ricadere su Renzi e sul risultato elettorale del Pd. Difficile quindi che questa minaccia sarà usata sino in fondo.
A preoccupare c’è però l’estremo ritardo con cui Renzi sta disponendosi a costruire una coalizione. Forse solo dopo il risultato siciliano se ne è convinto davvero. E ora bisogna correre. Nei paraggi del Pd ci sono troppi galli a cantare, e riunire tutte le varie anime sembra sempre più improbabile. Bisogna fare delle scelte.
La prima scelta da fare sarà se guardare a destra, o a sinistra. Lo spazio per tenere insieme Alfano e Pisapia si è fatto sempre più esiguo: il 2 per cento di Alternativa Popolare in Sicilia ne certifica l’irrilevanza, mentre una delle condizioni per il dialogo poste dall’ex sindaco di Milano è sbarrare le porte agli ex del centrodestra.
Sin qui le cose sono relativamente facili, anche se ben difficilmente senza i senatori di Alfano lo ius soli avrà i voti per diventare legge. Poi tutto si complica: Bersani e Speranza hanno lanciato la corsa di Pietro Grasso per la leadership del centrosinistra, Pisapia ha risposto con Laura Boldrini, la quale ha certificato che ad oggi non vi sono le condizioni per un accordo con il Pd, mentre sullo sfondo rimane sempre l’ipotesi Gentiloni. A scanso di equivoci, intanto, Fratoianni ha sfilato Sinistra Italiana da ogni trattativa, dichiarando di lavorare a un “polo radicale e alternativo”.
E qui torniamo a Veltroni e, dietro di lui, a Romano Prodi, pure segnalato in gran movimento. Se Renzi ha intenzione davvero di essere inclusivo non potrà fare a meno di chiedere il loro aiuto. Un confronto politico vero, però, e non i mezzucci che pure si stanno escogitando dalle parti del Nazareno, sulla base di idee attribuite proprio a un prodiano doc come Arturo Parisi. L’ultima trovata consisterebbe in alleanze “a geometria variabile”, sfruttando la possibilità di collegare i simboli di partito al candidato per il collegio uninominale. La mente corre subito alla desistenza che venne messa in campo nel 1996 fra l’Ulivo e Rifondazione Comunista, con i candidati bertinottiani che correvano sotto il simbolo dei “Progressisti”, quello della sconfitta di Occhetto due anni prima, in collegi dove l’Ulivo aveva rinunciato a essere presente.
Sono passati più di 20 anni da quel trucchetto, che si rivelò invero piuttosto efficace. Viene da chiedersi chi a sinistra potrebbe accettarlo, ma soprattutto se gli elettori di centrosinistra capirebbero. Ma limitarsi a questo significherebbe da parte di Renzi rinunciare a rilanciare la ricomposizione del centrosinistra. Significherebbe solo un pugno di seggi in più per giocarsi quella che lui sembra ritenere la partita vera, quella post voto della formazione del prossimo governo.