Chi governerà l’Italia dalla prossima primavera? È questa la domanda che si fanno non solo le cancellerie dell’Eurolandia, ma soprattutto i cittadini italiani. Ai partiti interessa il numero di seggi in parlamento, agli elettori sapere chi garantirà loro sicurezza e prosperità. Sembra troppo presto per porre una domanda del genere, visto che oggi si parla solo di alchimie interne ai partiti e di futuribili coalizioni. Invece, c’è qualcuno che mette tutti gli esperti del risiko politico di fronte a qualche amara verità. La prima è che la Legge di bilancio soffice, prudente, snella, fatta per creare meno danni possibili come auspica il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, non basta. Ci vorrà di più, qualcosa pari allo 0,2% del prodotto lordo per tener fede agli impegni informali raggiunti con l’Unione europea. In soldoni si tratta di qualcosa come tre miliardi e mezzo di euro o giù di lì. Di per sé non è una cifra impossibile, né tale da provocare tragiche conseguenze sulla congiuntura economica, tuttavia il prossimo parlamento nasce già con un’ipoteca, un debito in più sulle sue spalle a meno di non trovare il modo di coprire il buco.
Finora si tratta di voci, perché ufficialmente si saprà solo tra una decina di giorni, quando l’Ue pubblicherà il suo giudizio sulle leggi di bilancio, ma non è arrivata nessuna smentita, quindi si suppone che la cifra sia corretta. Del resto, attorno a questi due decimali si è svolto già un braccio di ferro tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il Commissario europeo Pierre Moscovici, il quale ha dato sull’economia italiana un parere a doppie tinte. Da una parte, ha detto, “c’è una vera ripresa”, dall’altra l’Italia con il suo punto e mezzo di prodotto lordo in più cresce meno della media (2,2 nell’area euro) e meno di Francia e Germania. Non solo, è previsto un rallentamento preoccupante; 1,3% l’anno prossimo e appena un punto nel 2019. Anche la disoccupazione, inchiodata attorno all’11%, è più alta (con l’eccezione della Spagna al 17%) e si ridurrà a un ritmo troppo lento, mentre il debito, la gigantesca palla al piede che tiene l’economia italiana inchiodata al pavimento, non scenderà sotto quota 130% nemmeno nel 2019. E questo fa suonare un campanello d’allarme.
Bene, possiamo dire che le cifre chiave del prossimo Documento di economia e finanza, chiunque vada a palazzo Chigi, sono già fissate. E con esse è anche già delineata la manovra di bilancio del 2018 destinata sostanzialmente a intaccare la montagna del debito e confermare l’impegno al (quasi) pareggio di bilancio nel 2020. Il nuovo ministro dell’Economia deve solo stabilire se tagliare un po’ qui un po’ là e quali imposte aumentare. Tenendo conto che c’è sempre il rischio di un aumento generalizzato dell’Iva. I margini di manovra, insomma, sono davvero pochi, a meno che non arrivi un governo coraggioso che riesca a fare quel salto di qualità nella gestione del bilancio pubblico che non è riuscita in questa legislatura. Per questo ci vorrà un ampio consenso in parlamento, mancato negli scorsi cinque anni e improbabile stando alla nuova legge elettorale.
Ecco perché lo scontro politico, sotto la panna montata a uso dei media, ruota attorno a una questione chiave che traspare anche dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Come mai è emersa una voglia matta di coinvolgere Mario Draghi? Le polemiche sul suo operato come governatore della Banca d’Italia sono già scoppiate, altre e molte di più verranno fuori a proposito della crisi del Monte dei Paschi, prossima puntata della telenovela bancaria. Ma per capire la vera posta in gioco, facciamo un piccolo passo avanti.
Se vince il Movimento 5 Stelle, diventa concreto il rischio di una nuova guerra dello spread, con un attacco massiccio della speculazione finanziaria. In quel caso sarà decisiva la Bce ancor più che la Commissione europea. Se uscirà un equilibrio instabile, in vista di nuove elezioni, modello Spagna (è questo lo scenario prefigurato da Renzi) sarà ancor più importante un timoniere che tenga la barra diritta a Roma sostenuto da Francoforte e da Bruxelles. Ma questo è vero anche nel caso che governi di nuovo il centrosinistra o a palazzo Chigi vada il centrodestra, data la probabile instabilità della maggioranza.
La conferma di Ignazio Visco alla Banca d’Italia è stata la prova generale dell’asse di ferro tra Sergio Mattarella e Mario Draghi destinato a diventare il punto di riferimento dei prossimi equilibri politici. È una convinzione che Matteo Renzi condivide con Beppe Grillo: sia pur con opposti intenti, a entrambi non piace un governo tecnico o del presidente, e Draghi è la più alta “riserva della Repubblica”. Il gran capo della Bce vuole restare la suo posto fino alla scadenza nel 2019, ma questo non esclude nulla. Come ha insegnato il 2011, si può governare meglio da Francoforte (ricordiamoci la lettera della Bce al governo Berlusconi) che da Roma, soprattutto quando c’è il sostegno attivo del Quirinale.