Matteo Renzi e Massimo D’Alema, divisi su (quasi) tutto, marciano però uniti e solidali su un obiettivo: liquidare ogni tentativo di ricomposizione tra Pd e scissionisti Mdp. In effetti la mediazione messa in piedi da Giuliano Pisapia — con alle spalle Romano Prodi e Walter Veltroni — prevedeva il “passo indietro” di entrambi ovvero la non ricandidatura di D’Alema alla Camera e di Renzi a Palazzo Chigi. I due ex premier si sono all’unisono ribellati e forti del fatto di essere i maggiori “azionisti” degli interlocutori di questa trattativa, ora puntano concordemente a una resa dei conti elettorale in cui il sopravvissuto sarà padrone del campo. 



Massimo D’Alema pensa che Matteo Renzi può essere disarcionato solo con le elezioni politiche e che ogni tentativo di condizionarlo da qui al voto — Orlando, Franceschini, Emiliano, Pisapia — è perdita di tempo. 

Da parte sua il segretario del Pd è convinto nella sua tournée ferroviaria di essere sulla cresta dell’onda — il 40 per cento delle europee è stato confermato anche nel referendum — e che le difficoltà sono dovute alle divisioni interne: un Pd meno legato ai “padri fondatori” (ovvero all’identità ex Dc ed ex Pci) può recuperare e sfondare.



A vantaggio di D’Alema c’è la capacità di saper tessere una rete di alleanze scegliendo come leader una figura come Pietro Grasso. La discesa in campo del presidente del Senato (ex capo della Procura di Palermo) affiancato dal presidente della Camera, Laura Boldrini, può essere al tempo stesso “richiamo della foresta” per la vecchia sinistra e “appello alle armi” per il nuovismo antipolitico. Con davanti quasi sei mesi di campagna elettorale gestiti dalla seconda e terza carica dello Stato il risultato di avvicinarsi al 10 per cento è già dato per scontato. In aggiunta l’eloquente silenzio del Quirinale sembra non solo autorizzare, ma anche incoraggiare i presidenti di Senato e Camera anche in vista del “governo del Presidente” dopo le elezioni. In effetti non si era mai visto che presidenti di Camera e Senato uscissero dai rispettivi partiti alla vigilia delle elezioni per fondare un nuovo soggetto parlamentare e candidarsi contro il partito protagonista dell’attività legislativa da essi presieduta per cinque anni.



 A discolpa di Matteo Renzi c’è così la fragilità degli argomenti usati contro di lui dagli “elefanti” — gli ex fondatori del Pd (Prodi, D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani) — che immaginandosi “eden perduto” lo contestano come se l’attuale segretario del Pd avesse disperso un tesoro di voti e un patrimonio di traguardi da loro miticamente e irreversibilmente conquistati. In verità la “rottamazione” di Renzi venne acclamata a furor di popolo proprio di fronte al fallimento delle leadership che lo avevano preceduto. 

L’ascesa di Renzi vide il Pd oltre il 40 per cento proprio perché archiviava la politica imperniata su giustizialismo e antiberlusconismo che si era rivelata perdente e il giovane sindaco di Firenze prometteva invece concretezza e innovazione. 

Ora però Matteo Renzi, più che aggrapparsi al “suo” 40 per cento del 5 dicembre, dovrebbe porsi il problema del perché nel corso di tre anni del “suo” governo i “populisti” non sono diminuiti, ma sono aumentati: tanta gente che non era affatto “populista” oggi lo è. Nessuno nel vertice del Pd renziano si pone cioè il problema che è evidenziato da tutti gli studi sul contrasto tra globalizzazione e ceti medi. L’impoverimento in atto da anni dei ceti medi diventa xenofobia se chi governa si occupa — giustamente — dell’emergenza migranti e dei diritti gay, ma — ingiustamente — snobba la loro crescente difficoltà. I “bonus” sono spari nel buio mentre sembra avverarsi la profezia di Marx sulla “proletarizzazione del ceto medio”. Un fenomeno che oggi il Pd renziano tende a sottovalutare e a irridere come “pancia” retrograda del paese.

In aggiunta dopo la sconfitta referendaria l’unica “vittoria” di Renzi è stata la legge elettorale varata come una sorta di suo ritorno all’ovile e cioè al “patto del Nazareno” con Berlusconi e Verdini. E il voto in Sicilia non è secondario, in quanto rispecchia il dato nazionale più preoccupante per il Pd e cioè che i “populisti” sono da un lato il primo partito sulla sua sinistra e dall’altro il primo partito della coalizione alla sua destra.

E’ così che nei giorni successivi è sfumato lo schema delle alleanze con cui Renzi pensava di andare alle elezioni: il Pd con da un lato una lista “civica” di Emiliano e amministratori locali e dall’altro Emma Bonino insieme a Pisapia. Ora, dopo il voto siciliano, sul tavolo della trattativa c’è la richiesta di ripristinare l’articolo 18 e di cancellare Jobs Act e accordo con la Libia fatto da Minniti. Quindi Pisapia apre una trattativa che la Boldrini immediatamente dopo dichiara chiusa.  

Il “partito a vocazione maggioritaria”, anche se ancora nella direzione Pd è formalmente escluso, diventa sempre più una scelta inevitabile in quanto ormai il partito di Renzi ha come possibili nuovi alleati solo i seguaci di Alfano, mentre Gentiloni e Franceschini si muovono a passi felpati secondo il motto di Andreotti “il potere logora (chi non ce l’ha)”.

Con la nuova legge elettorale una lista di sinistra guidata da Grasso ha sicuramente il “merito” di frenare lo scivolamento elettorale in corso dal Pd al M5s di un elettorato di sinistra tradizionale irriducibilmente allergico alla rottamazione renziana. Levando però voti sia a Renzi sia a Grillo è “obiettivamente” — avrebbe detto Stalin — a favore di Berlusconi.