Giovedì al Parlamento europeo è andato in scena un voto importante ma trascurato in Italia. È stata approvata la proposta di riformare il famoso Regolamento di Dublino, quello che disciplina le richieste di asilo dei migranti. Quello contro cui da anni si scaglia il centrodestra italiano, in particolare la Lega ex Nord, e da qualche tempo anche i grillini e il centrosinistra, visto che prendersela con l’Europa fa prendere voti. È la norma in base alla quale tocca al Paese dove è avvenuto l’ingresso (quindi in sostanza Italia, Spagna e Grecia) ospitare il richiedente asilo e valutare la richiesta di protezione internazionale. È il capestro che costringe l’Italia a organizzare i centri di accoglienza, a convincere i sindaci, a requisire alberghi, a esasperare le popolazioni, eccetera. Se la riforma andrà in porto, il criterio del “primo ingresso” sarà sostituito da un meccanismo di ripartizione automatico tra i 27 Paesi dell’Ue in proporzione al Pil e al numero di abitanti.
Ha votato sì un fronte trasversale che affratella Ppe, socialisti e Sinistra unita. La Lega si è astenuta, il Movimento 5 Stelle ha votato contro. C’è da restare basiti: proprio i partiti italiani che più avevano cavalcato il malcontento verso gli sbarchi e la massiccia presenza di profughi si oppongono al primo vero tentativo di riformare il sistema in una direzione che non danneggia l’Italia. Perché?
Naturalmente i motivi sono diversi. I grillini accusano il nuovo Regolamento di Dublino di non essere sufficientemente ambizioso. Si può fare di più, dunque non facciamo neppure il poco che si può fare anche se ci conviene. I 5 Stelle non vogliono prendersi responsabilità di nessun tipo, intendono mantenersi su posizioni anti-sistema a prescindere, e a pochi mesi dalle elezioni fanno di tutto per stare alla larga da interventi sul tema immigrazione. Voto contrario a tutto, allo ius soli in Italia e alla riforma di Dublino in Europa. Che siano gli altri a farsi carico di cambiare qualcosa, perché il M5s non sa fare altro che puntare il dito contro chi decide.
Per la Lega la questione è un’altra. La riforma è stata accelerata dal fatto che il capo dell’europarlamento è di Forza Italia, Antonio Tajani, uno di quelli che Silvio Berlusconi vedrebbe bene a Palazzo Chigi in caso di vittoria del centrodestra. Ma poiché Tajani fa ombra alle ambizioni di premiership di Matteo Salvini, ecco che arriva l’astensione leghista che suona come una presa di distanza netta dagli azzurri. La Lega non votò Tajani alla guida del Parlamento comunitario e ora non gli riconosce il ruolo oggettivamente giocato per il bene del Paese.
L’astensione leghista riapre gli interrogativi sulla tenuta effettiva della coalizione di centrodestra, o sull’ipotesi di coalizione, che tutti i sondaggisti danno per vincente alle elezioni di primavera. Appare sempre più probabile che l’eventuale accordo sarà un semplice patto elettorale e dopo il voto liberi tutti, a meno che il risultato non sia davvero eclatante. Ma la maggioranza parlamentare si potrebbe raggiungere soltanto convincendo gli elettori che a urne chiuse Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia resteranno uniti e non andranno ognuno per conto proprio. Uno — il Cavaliere — magari a cercare sponde con Matteo Renzi (o chi per lui, se il segretario Pd dovesse cadere in ulteriore disgrazia). E l’altro — Salvini — forse a tentare l’asse antisistema che farebbe saltare il banco, cioè l’alleanza con i grillini. Del resto, erano dalla stessa parte anche l’altro giorno quando hanno cercato di mettere i bastoni tra le ruote al nuovo Regolamento di Dublino.