E venne il giorno del grande divorzio a sinistra. A meno di autentici miracoli, la rottura è definitiva, Pd e Campo progressista da una parte, Mdp e Sinistra italiana dall’altra. La missione dell’ambasciatore Piero Fassino non è ancora formalmente conclusa, ma il suo esito è una ricucitura solamente con Pisapia e il suo gruppo di Campo Progressista.
La rottura a sinistra si consuma in una domenica di mezzo novembre fra l’assemblea di Sinistra italiana e il salotto televisivo di Lucia Annunziata. Alla prima si approva all’unanimità un documento che parla di incompatibilità con questo Pd e di costruzione di un quarto polo con Mdp. Nel secondo, Bersani dice basta con il teatrino delle mediazioni e dà appuntamento ai democratici in parlamento, dopo le elezioni.
Per arrivare a un’apertura di dialogo con Pisapia si sono dovuto scomodare i due padri nobili dell’Ulivo, Valter Veltroni e Romano Prodi. Il primo in modo più convinto del secondo. L’ex sindaco di Roma ci ha messo la faccia, ricavando per il futuro il ruolo di riserva della Repubblica. L’ex premier lo ha fatto con meno energia, e il suo colloquio con Renzi è stato “lungo e cordiale”, come si definiscono i contatti telefonici con i capi di stato stranieri. Segno di una distanza anche personale, che aveva spinto alcuni fra i fedelissimi di Prodi a ipotizzare di riproporre il simbolo dell’Ulivo. Un’ipotesi che alla fine il professore si è trovato a dover smentire, prima di salire su un aereo per gli Stati Uniti.
Alla fine, la montagna ha partorito il topolino: piccola intesa fra Pd e Campo progressista e prospettiva di un’alleanza elettorale con due o tre liste accanto al simbolo democratico: gli uomini di Pisapia, quelli di Alfano (e forse Casini) e un rassemblement laico ed europeista con Bonino, Della Vedova e i Verdi. A sinistra, invece, lista unica fra Mdp, Sinistra italiana di Fratoianni e Possibile di Civati, con la speranza di riuscire a scavallare la soglia del 3 per cento.
Dice Bersani che con questa legge elettorale nessuno può vincere le elezioni, quindi tutti i giochi si faranno dopo il voto, nelle nuove Camere. E’ questa una considerazione vera a metà, nel senso che le coalizioni, per quanto lasche, servono a vincere nei collegi uninominali. E viene da chiedersi quale danno potrebbe essere arrecato al centrosinistra classico (quello targato Renzi, per capirci) dalla presenza nei collegi di candidati della lista di sinistra-sinistra.
Trucchetti saranno difficili, nel senso che la desistenza non è consentita dal Rosatellum: il collegamento fra candidato nell’uninominale e lista proporzionale è indispensabile. Quindi fra le due anime della sinistra sarà concorrenza vera, senza esclusione di colpi. Uno scontro che rischia di scolorire sempre di più la matrice di sinistra del Partito democratico, vista l’intenzione di Bersani, Speranza, D’Alema e Fratoianni di incalzare Renzi e soci su terreni scabrosi come il lavoro, l’articolo 18, l’abolizione della legge Fornero, l’innalzamento dell’età pensionabile e la politica di contenimento delle migrazioni, con i conseguenti accordi con la Libia.
Le avvisaglie di questo braccio di ferro si avranno nelle prossime settimane in parlamento. Il monito di Bersani in questo senso è chiaro: se la legge di bilancio non cambia difficile votarla. Per paradosso (ma non troppo) Mdp e Sinistra italiana sono pronte a dar man forte ai democratici su due terreni scivolosi per il governo Gentiloni: se la maggioranza deciderà di forzare la mano su ius soli e biotestamento. Terreni su cui i centristi di Alfano non potrebbero seguire Renzi, a meno di non firmare il proprio suicidio politico. E che — soprattutto lo ius soli — sarebbero un incredibile regalo alla campagna elettorale del centrodestra.
Renzi quindi dovrà soppesare ogni mossa futura dal momento che rischia di vedersi sospinto al centro da Mdp. I fuoriusciti, infatti, tenteranno di catalizzare il voto di parecchi nostalgici del “rosso antico”, proprio quando il centro è stato prepotentemente ri-occupato da Berlusconi. E Bersani — in più — continua a strizzare l’occhio ai 5 Stelle (“gli parlo perché non sono un fuoco di paglia”, è la spiegazione). Indice di possibili turbolenze “a tutto campo” all’indomani della consultazione elettorale.
I tempi del “partito della nazione”, insomma sembrano lontani anni luce. Eppure il 41 per cento alle europee, apice del renzismo, risale appena a tre anni fa. Se non vuole assistere impotente a una tenzone fra centrodestra e grillini, Renzi ha ancora qualche settimana per mettere in campo un’iniziativa politica capace di recuperare in extremis un rapporto con la galassia che si sta coagulando in un listone alla sua sinistra. Nel caso in cui, per orgoglio o per convinzione, non dovesse farlo, la chiave di lettura sarebbe obbligata: segnalerebbe la sua intenzione di giocare tutte le sue carte nella trattativa post-elettorale. Un azzardo rischioso, che potrebbe vederlo clamorosamente tagliato fuori.