Persino uno dei più abili “arrangiatori” della storiografia, Paolo Mieli, deve ammettere nel suo ultimo libro Il caos italiano che gli studenti degli anni Sessanta, per quanto riguarda la storia, furono costretti e frequentare una “scuola dell’oblio”. Occorreva dimenticare, far dimenticare il consenso al regime mussoliniano e sparare magari “balle”, lasciando a pochi di approfondire e spiegare.
Ma la “scuola dell’oblio” per la storia, in Italia, si limita solo a quel periodo? Probabilmente è molto più ampia di quello che si pensi e tocca tanti argomenti che risalgono agli anni del Risorgimento e arrivano anche a quelli che lo stesso Mieli giudica i “suggerimenti di Stalin a Togliatti sulla svolta di Salerno”. Alla faccia dei suggerimenti!
Poi, adesso, si presenta la storia, la ricostruzione degli anni della “prima repubblica”. Secondo Mieli “c’è una visione nostalgica e un rimpianto diffuso”, naturalmente in modo sbagliato, che uno studioso come Michele Salvati (anche lui in un libro, Tre pezzi facili. Democrazia, crisi economica, Berlusconi) spazza via con forza, perché a suo parere furono quegli anni e la politica economica attuata in quel periodo che hanno prodotto l’eredità che oggi viviamo: “l’eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli esiti deludenti del periodo successivo”.
A questo punto si dovrebbe necessariamente aprire un dibattito, un confronto franco e sincero, magari “congressuale” se esistessero ancora i partiti, che riguarda il futuro della nostra stessa democrazia.
Perché in questi ultimi tempi c’è stata, a livello generale, un’accelerazione della disillusione verso gli esponenti della politica? Perché i dati economici sull’Italia non convincono mai? Non solo il tecnocrate europeo Jyrki Katainen, ma altri osservatori economici e soprattutto i cittadini italiani, che disertano sempre di più le urne in questa fase storica e manifestano un malessere diffuso, quasi un risentimento verso le promesse create dalla svolta del 1992.
A confronto, ci sono due tesi di fondo: la prima è quella di uomini come Salvati e dei fautori del pensiero liberista, neoliberista o “rigorista”, ma anche dell’ex sinistra italiana, di una parte consistente dell’ex Pci convertito: l’attuale difficoltà dell’Italia è principalmente dovuta alla corruzione dilagante, alla spesa facile della “prima repubblica”, a quelle finanziarie “in cerca di consensi”, ai famosi marchingegni della svalutazione della lira e alla mancanza di un’attenta politica di bilancio che ha così ingrossato, a dismisura, il debito pubblico.
In fondo, la stessa crisi economica-finanziaria internazionale è solo un drammatico incidente di percorso che rende difficile una situazione da cui alcuni governi di centrosinistra dopo il 1992 avevano cercato di tirarci fuori. Sulle colonne dell’Unità Massimo D’Alema, nel 1999, definiva quella “prima repubblica” conclusa nel 1992 “una stagione drammatica che è alle nostre spalle”. E, sempre secondo D’Alema, era arrivata la “seconda repubblica”, quella del tempo delle “personalità positive”, come Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Romano Prodi e naturalmente lo stesso D’Alema.
Siamo ancora lontani dalla crisi dei subprime e dal fallimento di Lehman Brothers, che chiuse gli uffici il venerdì con un rating da tripla A e il lunedì successivo chiuse i battenti, aprendo una crisi devastante e contagiando tutti i paesi del mondo.
Ma non divaghiamo, per il momento, e restiamo sull’Italia e sulla tesi opposta a quella di Salvati e di tantissimi altri da alcuni studiosi di economia, come ad esempio Vittorio Valenza, che spiegano e documentano con grafici molto precisi: “Nei circa otto anni, dal 1992 al 2000, il debito pubblico ha avuto il maggior squilibrio rispetto all’andamento del Pil: nell’arco di quegli anni si è attestato mediamente attorno al 115 per cento. Il tutto nonostante che, tra il 1992 e il 1999, i tagli alla spesa pubblica siano stati imponenti (lo dice D’Alema), il fisco sia diventato il più esoso d’Europa, le cosiddette ‘privatizzazioni’ abbiano procurato, nell’intero periodo, oltre 170 miliardi delle vecchie lire (forse di più, ndr), equivalenti oggi a 90 miliardi di euro e, infine, l’asta delle ‘frequenze Umts’, battuta nel 2000, abbia contribuito non poco a raffreddare il deficit di bilancio”.
Al termine della “prima repubblica”, secondo la Banca d’Italia, il debito italiano ammontava a 799 miliardi e 500 milioni di euro. Nel 1991 il Pil risultò di poco inferiore a 760 miliardi di euro e alla fine del 1992, arrivò a 804 miliardi e 682 milioni. Si viaggiava insomma intorno al 100 per cento.
Ma è dal secondo semestre del 1992, da quando esplode Tangentopoli e alcuni “giuristi milanesi” (tra virgolette appunto) scendono in campo come grandi moralizzatori della vita pubblica, che l’Italia non cresce più e il debito aumenta. Già nel 2009, Ajaj Chopra, vice direttore del Dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, nel corso della conferenza stampa di presentazione del “Rapporto regionale sull’Europa” ha modo di sottolineare come i “problemi dell’Italia vanno ben oltre questa recessione e dipendono dal basso potenziale di crescita dell’economia, perché nel corso dell’ultimo decennio l’Italia ha visto declinare la produttività, ristagnare i redditi e allargarsi ulteriormente il gap di competitività”. Chopra si riferisce a dati che partono dal 1997, ma la crisi comincia proprio con il secondo semestre del 1992 ed è documentata da grafici precisi.
Il fatto è che, se si guarda alla storia della Repubblica italiana, a partire dal 18 giugno 1946, si possono avere due metodi di ripartizione dei periodi. Una prima: 1946-1949 la ricostruzione; 1950-1963 il boom; 1964-1970 il protagonismo sindacale. Vediamo un’altra scansione, più dettagliata: 1946-1951 la ricostruzione; 1952-1961 il cosiddetto boom; 1962-1971 i cosiddetti “anni 60”, il centro sinistra, cioè la rinascita sindacale, le grandi riforme sociali, la più imponente ridistribuzione del reddito mai vissuta dal Paese; 1972-1981 il completamento delle riforme sociali e civili, l’ingresso del Paese nel G6, ma anche la strategia della tensione e il terrorismo; 1982-1991 l’affermarsi, anche dal punto di vista ideologico, dalla cosiddetta “Reaganomics”, cioè l’insieme di politiche economiche accettate dagli Stati Uniti nel corso della presidenza di Ronald Reagan, dal gennaio 1981 al gennaio 1989, e dagli analoghi provvedimenti adottati nel medesimo periodo da Margaret Thatcher nel Regno Unito. Dal 1992 arriva la cosiddetta “seconda repubblica”.
A questo punto occorrerebbe concentrarsi sui due periodi (1951 e 1991; 1992-2010), cioè nel periodo del passaggio da una repubblica all’altra. Qui assistiamo non solo al cambiamento repentino e drammatico avvenuto tra il 1992 e il 1994 del quadro politico, cioè della classe politica, del suo sistema di reclutamento, formazione, selezione e promozione del cosiddetto sistema dei partiti e dei modelli elettorali, ma anche e soprattutto al mutamento radicale, impresso soprattutto dai governi degli “uomini positivi” Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Romano Prodi e Massimo D’Alema, alla struttura produttiva del Paese, con la liquidazione delle Partecipazioni statali e le cosiddette “privatizzazioni”, nonché le decisive modifiche del mercato del lavoro.
Al termine di questo percorso è proprio nel 1992 che, con il premier Giuliano Amato, il debito pubblico supera il Pil e il premier recordman degli indebitatori nella storia della Repubblica si scopre che è il lodatissimo Carlo Azeglio Ciampi nel periodo in cui fu presidente del Consiglio, tra il 1993 e il 1994.
Ma la sostanza è che con il “grande mutamento” l’Italia non solo non cresce più. Se il debito era all’82 per cento del Pil con Bettino Craxi, con l’abbattimento dell’inflazione e soprattutto con la messa a regime della spesa sanitaria, se pure il debito aumentò anche con i successivi governi democristiani, ci si assestò intorno al 100 per cento, in un Paese ricco. E con una nuova ripresa produttiva, secondo quello che diceva anche il vecchio rooseveltiano Kenneth Galbraith, in visita in Italia nei primi anni Novanta, il problema era concentrarsi nuovamente sulla crescita, in base alla struttura produttiva del Paese e a mutamenti necessari e graduali.
La sostanza invece è che il paese continuò a perdere e, complice poi la recessione del 2007-2008, oggi il debito italiano è arrivato a 2.300 miliardi di euro, si è cioè triplicato rispetto alla caduta della “prima repubblica”. Se si guarda alla complessiva storia d’Italia, in rapporto al prodotto interno lordo, il debito pubblico è inferiore oggi solo a quello accumulato durante e dopo la prima guerra mondiale.
Facciamo quindi un esempio pratico del malessere italiano. Nel 1991, ogni cittadino italiano occupato aveva un debito pari a 37.257 euro e 14mila se residente in Italia. Nel 2009, il debito è stato di circa 29mila euro per ogni residente e di oltre 76.500 euro per ogni italiano occupato. In pratica è più che raddoppiato rispetto all’eredità lasciata dall’ultimo, il settimo, governo di Giulio Andreotti.
C’è una risposta a tutto questo? C’è qualche spiegazione? Limitiamoci per ora a dire che, alla vigilia della “seconda repubblica” viene attaccato il “modello Milano”, dove c’è il leader più demonizzato, Bettino Craxi, e la banca d’affari più bersagliata e invisa dai nuovi “economisti” rampanti, la Mediobanca di Enrico Cuccia e ormai da un ventennio diretta da Vincenzo Maranghi.
(1 – continua)