“Dopo il flop nella corsa all’Ema, Tavecchio in pole per il ministero della Salute. Ventura sottosegretario”: non appassionando il grande pubblico, la sconfitta di Milano al sorteggio contro Amsterdam nella scelta come sede dell’Agenzia europea per il farmaco ha suscitato sul web soprattutto reazioni ironiche in punta di penna, come questa appena letta. Ed effettivamente, a voler essere asettici e politicamente ultracorretti, non si può addebitare a una monetina che cade da una parte o dall’altra una responsabilità politica precisa o tantomeno un’occulta volontà discriminatoria.



Si può anche dire che non abbiamo poi perso chissà che, molto meglio la crescita – da sostenere! – negli ultimi anni galoppante e inarrestabile della nostra industria farmaceutica che un ufficione pubblico di stampo euroburocratico. Però sarebbe troppo facile liquidare con un’anatema contro il destino cinico e baro lo smacco di Milano e chiuderla lì. C’è dell’altro.



Ricordiamoci, intanto, cosa questo smacco fa sfumare. L’Ema era, per noi ma ahimè non solo, la più ambita tra le agenzie europee che lasceranno la Londra del post Brexit. Per averla, si sono candidati 19 Paesi su 27. Per capirci, ad avere invece l’Eba – la famigerata agenzia per la vigilanza bancaria, quella che prescrive norme sempre più cervellotiche e meno sostenibili per le sofferenza bancarie – si erano candidati solo 8 Paesi su 27. Quando nel marzo del 2019 l’Ema traslocherà da Londra, porterà ad Amsterdam quasi 900 dipendenti, 36mila visitatori all’anno, con il relativo business di notti in hotel e pranzi al ristorante, un budget complessivo da 325 milioni di euro tra stipendi e spese e un indotto che la Bocconi aveva stimato in 1,7 miliardi di valore aggiunto e quasi 900 occupati in più all’anno.



Oltretutto, la presenza dell’Ema avrebbe coronato il percorso di specializzazione nelle discipline scientifiche e della salute che Milano sta comunque compiendo, con i suoi ospedali di rango europeo, le università e il Parco della scienza che andrà all’Expo, con il nuovo campus dell’Università Statale, l’Human Technopole e il Galeazzi. Tutte belle realtà che resteranno un po’ orfane dell’agenzia. “Vabbè, basta: è andata di sfiga, non ne parliamo più”: si potrebbe concludere. Ma, ripetiamolo, non è stata solo sfiga. E neanche sottovalutazione del problema: né da parte degli enti locali (Comune di Milano e Regione Lombardia hanno fatto sistema e si sono prodigati in impegno), né da parte del governo. E allora?

Allora paghiamo il pegno della scarsa, e per ora irrecuperabile, credibilità italiana in Europa. Come si è arrivati al lancio della monetina? Per turni successivi. Milano aveva superato di slancio il terzo turno, nel quale era stata esclusa la concorrente preferita dai tedeschi, Bratislava. Poi aveva superato il secondo turno con 12 voti, davanti ai 9 di Amsterdam e ai 5 di Copenhagen, che è stata eliminata. All’ultimo turno, c’è stata parità: 13 a 13. Perché i supporter di Bratislava e Copenaghen non hanno ceduto al fascino latino. E la monetina ci ha traditi.

Si poteva lavorare ancora meglio, tutti, nelle settimane e nei mesi scorsi, per ampliare il margine di vantaggio con cui Milano si è presentata al superballottaggio? Probabilmente no. Abbiamo lavorato molto bene, in questo frangente. E a essere stata bocciata non è stata Milano, né la Lombardia: è stata l’Italia. Il tema è diverso, insomma, e più profondo, e attiene alle colpe storiche di una classe politica che in trent’anni ha demolito la credibilità internazionale delle istituzioni italiane, e di un caudillo giovane e di poca esperienza, inversamente proporzionale alla sua boria, Matteo Renzi, il quale anziché prendere e dare atto dei fossati di gap scavati dai suoi predecessori in passato, ha messo il disco del “tutto va ben, madama la marchesa”, negando l’evidenza di un’ironia che ci avvolge ogni volta che chiediamo supporto o almeno rispetto sulle questioni che ci affliggono ma hanno rilevanza sistemica internazionale, dall’immigrazione al terremoto alle clausole compensative sul bilancio pubblico e, soprattutto, all’intoccabile montagna del debito pubblico.

Che c’entra il debito pubblico con l’Ema? C’entra, c’entra: ci toglie credibilità. E che da trent’anni a questa parte l’Italia prometta di ridurlo senza farlo è sicuramente il più grave tra i pur numerosi altri motivi di discredito – quote latte, procedure d’infrazione … – di cui soffriamo in Europa. Meno risate, meno strombazzate di infondata sicurezza, e più fatti concreti. E forse l’Ema sarebbe stata nostra.