Il 10 ottobre 1998, Bettino Craxi, già da qualche anno ad Hammamet in Tunisia, ascoltava in casa le notizie dalla televisione sul primo governo di Romano Prodi che era caduto per un voto. Commentava con cautela che “forse il sistema non sarebbe riuscito a consolidarsi“. Ma l’interesse di Craxi era rivolto a ben altre cose e i suoi giudizi sulla situazione italiana erano sempre improntati al pessimismo.
Teneva soprattutto a una cosa: a ricordare e a ricostruire bene quanto era avvenuto. Diceva: “Quello che è accaduto non può passare alla storia in modo distorto, falso e contraffatto, o addirittura sotto silenzio. Tutta questa vicenda bisogna ricordarla bene, consegnarla alla cronaca e alla storia nel modo più corretto possibile”. Diceva alla fine, solo con un moto di rabbia: “In Italia ci sono personaggi che stanno mentendo per la gola”.
Descriveva quindi un quadro di destabilizzazione del Paese che non si limitava solo alle incursioni della magistratura nella politica. Lo scenario era più ampio, dove l’azione del pool di “mani pulite” rappresentava solamente “l’aviazione e l’esercito” di quello che era stato scatenato contro l’Italia. Grandi poteri esteri, grandi interessi internazionali, lo stesso ridimensionamento geopolitico e probabilmente anche molti errori della classe dirigente italiana, lui compreso, avevano provocato il trauma del 1992 con le conseguenze che si possono vedere.
Il famoso modello milanese, con il riformismo storico di Palazzo Marino trasferito in sede nazionale, la grande politica del “fare” sorretta da un sistema bancario e finanziario di prim’ordine, stava tramontando e il tutto stava finendo nella palude, nell’immobilismo della protesta leghista e nelle difficoltà di una sinistra che era solo l’erede di un fallimento, di un partito comunista che alla fine era saltato insieme all’Unione Sovietica, tanto che si era dovuto cambiargli il nome, tra risse, proteste e acrobazie. Alla fine anche il dossettiano Romano Prodi era rimasto prigioniero di quel parapiglia e la caduta del suo governo era dovuta al fatto, paradossale, che qualcuno aveva “sbagliato” a contare i voti.
La sera prima, Craxi si era fatto cucinare in casa dalla moglie e aveva mangiato, insieme agli amici, una classica trippa alla milanese, quasi avesse nostalgia di un ben altro ambiente e pensasse che la sua stessa vita, ormai un po’ travagliata per alcuni malanni, fosse arrivata alle curve finali, per cui occorreva godersi anche quelle piccole cose. Ma, anche di fronte a quel cibo che amava, non riusciva a stare fermo e ogni tanto si alzava dalla tavola apparecchiata per andare a prendere un documento che aveva in un piccolo studio e che illustrava dettagliatamente le azioni degli uomini dell’ex Pci, che avevano gestito gli affari di quel partito con l’Urss, anche quando c’era il confronto sui missili SS20 e le marce “pacifiste” su Comiso.
E quindi spiegava il perché la situazione italiana, sopratutto quella del finanziamento pubblico dei partiti, doveva essere sistemata prima del ’92 e perché il confronto e anche i metodi di finanziamento erano stati condotti in un modo da Guerra fredda.
L’impressione è che ci fosse sia un clima di ricordi, sia di nostalgie, di tristezza per una serie di occasioni perdute. A ben vedere, dopo la caduta del Muro di Berlino, era evaporato il maggior competitore della politica di sinistra in Italia, ma soprattutto si presentava un mondo completamente nuovo, non più diviso in due, che poteva consolidare la democrazia italiana.
Forse, ripensando a quei convulsi giorni del 1991, tra l’ultimo tentativo di golpe comunista in Russia, la guerra del Golfo e gli equilibri politici italiani, si poteva anche rimpiangere che non si fossero anticipate le elezioni finali della decima legislatura e magari non si fosse messo mano finalmente a un’autentica “grande riforma” istituzionale, magari con una nuova Costituente per accelerare un processo di ammodernamento in tutti i campi dell’Italia.
Le sensazioni e le percezioni che tutto stesse cambiando e che si dovesse governare questo cambiamento, erano ben presenti, ma forse si aspettava che avvenissero inevitabilmente, che fossero quasi scontate. Probabilmente non si tenevano ben presenti alcuni fattori importanti.
Il crollo dell’Urss e la caduta del Muro di Berlino avevano dato fiato sia alle spinte della Reaganomics, sia alle teorie liberiste della signora Thatcher, la premier britannica che traduceva brutalmente le teorie di von Hayek e di Milton Friedman: “La società non esiste. Ci sono gli individui economici che vogliono accumulare la loro ricchezza”. Si presentava un mondo dove il capitalismo assumeva una dimensione soprattutto finanziaria, che sostituiva l’economia reale e alla fine determinava inevitabilmente anche le nuove scelte politiche.
A questo tipo di grande scelta di campo sul terreno politico ed economico si piegarono i democratici americani di Bill Clinton, ma anche i laburisti britannici come Tony Blair e i socialdemocratici tedeschi come Gerhard Schroeder.
Alla fine quasi si arresero, traslocando dal pensiero riformista socialdemocratico a un’accettazione supina del neoliberismo trionfante. I postcomuinisti italiani, in modo quasi patetico, diventarono con Walter Veltroni degli “ulivisti mondiali” devoti a Clinton.
Bettino Craxi aveva idee diverse. Aveva vissuto in un’economia mista, che aveva ricostruito l’Italia e l’aveva lanciata nel mondo. Comprendeva che doveva gradualmente inserire elementi di liberalismo in un’economia a forte presenza pubblica, ma con gradualità e senza smantellare politiche industriali e settori strategici nazionali nell’impianto produttivo del Paese.
Su una linea simile o comunque affine si muoveva il grande sistema di Mediobanca, la banca d’affari voluta da Raffaele Mattioli, gestita da Enrico Cuccia e ora nelle mani di Vincenzo Maranghi, dopo la nomina di Cuccia a presidente onorario.
Sia da parte politica che da parte economica si vedeva chiaramente il rischio della cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, il nuovo ruolo delle banche ritornate generaliste o universali. E nello stesso tempo, anche per la sofisticazione dei mezzi tecnologici, si potevano notare tutte le alchimie finanziarie che avrebbero mutato in pochi anni l’impianto dell’economia che produce e dà lavoro.
E’ possibile, anzi più che probabile, che Enrico Cuccia abbia inviato a Craxi un messaggio sulla necessità di incontrarsi, magari un invito a mettersi a capo degli innovatori della svolta del dopo-comunismo e del dopo-Guerra fredda. E’ probabile che Craxi abbia declinato questo invito, forse perché geloso di un “primato della politica” che non poteva e non voleva riconoscere un “primato dell’economia”. Il fatto è che questo “appuntamento” sfumò e Cuccia andò addirittura a Il Giornale di Indro Montanelli a firmare per il referendum di Mariotto Segni, che colpì poi duramente, con il suo risultato, Bettino Craxi.
In questo modo i problemi rimasero sul tappeto e si vedeva, proprio all’inizio di quegli anni Novanta, la sequenza che avrebbe messo fuori gioco sia la politica riformista di Craxi, sia il ruolo di Mediobanca.
Guardiamo un attimo questa sequenza. Mentre Tangentopoli diventava una battaglia sempre più popolare, il 2 giugno 1992 sul “Britannia” della Regina Elisabetta si faceva una crociera con cento invitati che discussero delle privatizzazioni italiane. Erano invitati finanzieri di tutto il mondo e anche molti italiani. Unici assenti gli uomini di Mediobanca.
Sergio Romano, rispondendo a una lettera sul Corriere della Sera, spiegò che dietro a quella crociera si potevano vedere affari e sospetti. Non si poteva parlare certo di un “golpe” sulla svendita dell’industria italiana, nonostante il comitato promotore avesse un nome piuttosto intrigante, “British invisibles”. Fu forse un atto di propaganda che serviva alla causa dei nuovi teorici del neoliberismo italiano, compreso l’ambiguo Beniamino Andreatta, perché, come scriveva Romano, “E’ difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante”.
La sequenza riguardava quindi il ruolo della finanza, il futuro italiano di deindustrializzazione, il nuovo ruolo della banca generalista o universale, il peso preponderante dei derivati, il gioco del rating e le stock option.
C’era in più una paura degli americani su una presunta saldatura tra mafia siciliana e mafia russa, appena nata ma temibile. Per questo alcuni magistrati e funzionari italiani proseguirono quasi un’attività di collaborazione anche con l’Fbi, scatenando magari gelosie e ansie di protagonismo con magistrati di altre correnti sindacali. Un putiferio.
L’effetto dell’azione della magistratura causò prima la caduta di Craxi. L’effetto della grande finanziarizzazione provocò nel 2003 la marginalità di Mediobanca con le dimissioni di Maranghi. Solo un anno prima, nella primavera del 2002, Maranghi in un concitato consiglio di amministrazione di Mediobanca aveva, a un certo punto della discussione, battuto un pugno sul tavolo e aveva quasi gridato: “Il piano che riguarda le stock option io l’ho fatto, ma non le riservo per me. Se domani mattina, facendomi la barba e guardandomi allo specchio, sapessi che come capo di un’impresa prendessi delle stock option, mi vergognerei”.
Forse fu in quel momento che Maranghi firmò le sue dimissioni da un mondo che andava verso il baratro della grande crisi del 2007. Difendeva l’economia reale soprattutto, detestava i derivati e i meccanismi del rating, non sopportava la banca universale che, poi, di fatto, stava esautorando il ruolo di Mediobanca.
Caduta la politica riformista, caduta la grande finanza responsabile, l’Italia si è infilata nel “buco nero” di una crisi e di una depressione che si fatica a superare. Oggi si discute sul debito pubblico, forse dimenticando che le banche, come ha scritto anche il Papa in un’enciclica, sono state salvate dai soldi che magari avrebbero risolto i problemi dei pensionati.
E’ un bel problema venire a capo di una situazione tanto confusa sul piano politico e anche economico, sia in Italia che nel mondo.
(2 – fine. Leggi qui il primo articolo)