Il tempo delle incertezze genera mostri. E da qui allo scioglimento delle Camere ne leggeremo di cotte e di crude. Parliamo delle intenzioni del Quirinale, cui viene attribuito tutto e il contrario di tutto, molto spesso a sproposito. Nelle ultime settimane il diretto interessato, il Capo dello Stato, ha rarefatto i suoi interventi pubblici, segno (in mattarellese) che si avvicina una fase particolarmente delicata. E quando una singola parola fuori luogo potrebbe nuocere, allora meglio parlare il meno possibile. 



Qualcosa di più sulle reali intenzioni del Quirinale si capirà da metà dicembre, attraverso due interventi pubblici che sono appuntamenti fissi, gli auguri natalizi al corpo diplomatico e quelli alle massime cariche dello Stato. Da qui ad allora, infatti, alcune delle variabili in campo avranno trovato soluzione. Una in particolare: la conclusione senza scossoni della sessione di bilancio, l’unico passaggio considerato davvero irrinunciabile da Mattarella prima di mettere la testa sul calendario dei prossimi mesi. 



Chi ha avuto modo di scambiare qualche idea con il presidente della Repubblica lo descrive come preoccupato per le tante incognite che allungano le loro ombre sui prossimi mesi, ma niente affatto impegnato nel risiko delle maggioranze possibili nel parlamento che verrà. Il problema dei numeri, che quasi certamente vi sarà, verrà affrontato, ma solo a tempo debito, al termine di un complesso percorso di scadenze istituzionali da superare una dopo l’altra con il massimo rigore.

Primo passaggio, subito dopo il sì definitivo alla legge di bilancio, un confronto con il presidente del Consiglio per valutare se vi sia spazio per approvare in parlamento altri provvedimenti, oppure no. Mattarella chiederà certezze sui numeri per ogni passaggio ulteriore, dal testamento biologico allo ius soli, pronto a suggerire la massima prudenza. Traduzione: guai a mettere in pericolo il governo, senza un adeguato margine di sicurezza meglio accantonare lo ius soli. Gentiloni non deve cadere, insomma, anzi deve gestire la fase elettorale (e soprattutto quella post, che potrebbe essere molto lunga) nella pienezza dei poteri. Una cautela importante, specie sul piano europeo ed internazionale, ma non inedita, basta pensare al governo Amato II nel 2001 e al Berlusconi III nel 2006, che si dimisero solamente dopo l’insediamento delle nuove Camere per precisa scelta del presidente Ciampi.



Ad oggi, realisticamente, di margine per riprendere i lavori parlamentari dopo la pausa natalizia se ne intravede assai poco, quindi l’ipotesi che resta prevalente è quella dello scioglimento del Parlamento, sentiti ai sensi della Costituzione i rispettivi presidenti, nei primi giorni del nuovo anno, magari con un annuncio e una spiegazione agli italiani nel messaggio della notte di San Silvestro, che quest’anno si preannuncia molto politico. Un paio di settimane di slittamento non farebbero una gran differenza, il voto rimarrebbe possibile in una data collocata fra i 70 e i 45 giorni dallo scioglimento. Questo impone la Costituzione. Il 4, l’11 e il 18 marzo rimangono le date più probabili. 

C’è poi la questione Election Day da considerare, con tre regioni chiamate al rinnovo, Lombardia, Lazio e Molise. In teoria dovrebbero votare in una domenica fra il 15 aprile ed il 15 giugno. Per accorpare la scadenza alle elezioni politiche serve un decreto legge, ma si è già fatto nel febbraio 2013, quindi la strada è percorribile, basta un minimo di condivisione fra i partiti. L’attesa della sentenza di Berlusconi, invece, non può essere presa in considerazione, dal momento che i tempi della Corte di Strasburgo non sono in alcun modo prevedibili.

Sin qui siamo a passaggi poco più che tecnici. Poi arriviamo al cuore del problema: la formazione del nuovo governo, quando la palla passerà al Quirinale, e tutto lascia pensare che nessuno dei tre poli in campo avrà i numeri per fare da solo. La diplomazia del Colle è già discretamente al lavoro per avvertire tutti i partiti che verranno chiamati ad assumersi le rispettive responsabilità. Addio quindi ai governi del presidente o agli esecutivi tecnici, dimenticatevi gli approcci punteggiati di protagonismo e di supplenza alla Scalfaro, o alla Napolitano. Le forze politiche saranno spinte al dialogo e alla ricerca di soluzioni che nascano dalla politica, nell’interesse del paese. La cifra di Mattarella è il dialogo, e il dialogo può richiedere tempi e passaggi lenti. Un armamentario di strumenti, fra quelli dal profumo antico a quelli che possono essere escogitati lì per lì, che vanno dalle consultazioni del Presidente ai preincarichi, sino agli incarichi esplorativi, tutto è possibile.

Il sottinteso è che sbaglia bersaglio chi insegue l’ipotesi di un secondo voto a fine giugno, di cui si è favoleggiato su molti giornali. Per votare il 24 giugno il presidente dovrebbe sciogliere le Camere al massimo entro il 10 maggio, interrompendo la vita della XVIII legislatura al massimo 40 giorni dopo il suo insediamento. Ci sono i casi del Belgio, della Spagna e della Germania che stanno lì come monito sui tempi: le fasi di impasse che hanno interessato le grandi democrazie europee possono essere estremamente lunghe. Di sicuro prima di sciogliere per la seconda volta in pochi mesi il Parlamento il Capo dello Stato proverà ogni soluzione possibile. E se davvero tutto dovesse andare storto, e nessun governo nascere, le urne sarebbero – a malincuore – una prospettiva che appartiene più all’autunno che all’inizio dell’estate.

Ecco perché, e così ritorniamo all’inizio del ragionamento, è così importante tutelare il governo Gentiloni. Perché è l’unico che abbiamo, al momento, e potrebbe servire per molti mesi ancora.