Il nostro paese, anche nella versione delle elezioni siciliane, presenta alcune caratteristiche sempre meno volatili.
In primo luogo i partiti di centro-destra possono contare su uno schieramento di votanti, soprattutto in età avanzata, più o meno stabile. L’insediamento è più elettorale che sociale e organizzativo. Infatti, non si incarna in un partito e non è riducibile a Berlusconi. Il Cavaliere torna, però, ad essere il federatore delle anime moderate non radicali del paese. Dunque, riacquista il ruolo di vincitore. Non era previsto né prevedibile perché Berlusconi ha ormai un’età molto avanzata e la sua capacità di elaborare un programma nuovo, come quello delle origini, è sia difficile sia poco credibile.
Lega e Fratelli d’Italia non sono assimilabili a Forza Italia. Possono stare insieme quanto basta per stringere un’alleanza e piegare la sinistra. Ma proposte come il ponte sullo Stretto o l’abbandono dell’euro, per fare due esempi diversi, creano una rotta di collisione. Con l’euroscetticismo non si può stare nel partito popolare europeo né sperare di fare alleanze con la Merkel.
Già la vittoria elettorale di Musumeci in Sicilia profila una difficoltà e una grande debolezza. Al pari della sinistra, la destra non ha avuto né il coraggio né la propensione culturale a elaborare un progetto di superamento dell’attuale struttura regionale. Occorre ripensarla e rivoltarla come un calzino. Non c’è qualità di governo, e forse neanche governabilità possibile, se non si mette fine all’orgia dell’assistenzialismo, dei bilanci senza reddito delle miriadi di enti locali, ad una disoccupazione giovanile di circa il 57 per cento e in generale al basso tasso di legalità e produttività in cui fin dalle origini vive il sistema autonomistico.
Il nuovo governatore o si arrende ad essere un gestore del potere così com’è, e quindi gli è sufficiente ripetere i riti della vecchia politica, oppure deve avere la forza e la intelligenza di sfidare il futuro con una politica di radicale discontinuità.
Per la prima e per la seconda soluzione Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma anche i diversi gruppi politici e di interessi di Forza Italia, non sono alleati sicuri. Non possono garantire una traversata nel deserto disciplinata e conforme.
In altre parole, il nuovo governatore si troverà rapidamente a dover gestire un’instabilità istituzionale intrecciata a una sensibile crisi sociale senza avere in mano un’unità di fondo della coalizione sulle prospettive per superarla.
La seconda caratteristica del nostro paese è di avere un elettorato di sinistra privo della stabilità di una volta. Non sono rimaste, se non sbocconcellate e periclitanti, le aree rosse dell’Italia centro-settentrionale. Il loro elettorato è ormai stabilmente in libera uscita.
Tra il Pd di Renzi e l’Mdp di Bersani e D’Alema a prevalere è la vecchia logica cannibalesca propria della sinistra. Il nemico peggiore è quello più vicino, interno o appena laterale. La si può chiamare col suo vero nome: una storica vocazione alla guerra civile. Manca il carisma del federatore, la forza del programma, e si assiste ad una progressiva devastazione.
Il partito di Renzi perde tutti gli appuntamenti elettorali. Non sa offrire un’idea del progetto con cui andare incontro agli elettori sempre più declinanti. La sola immagine di sé in cui eccelle è la rissa continua e l’impreparazione.
Non stanno meglio i “fuorusciti” di Mdp. Ogni giorno inventano ragioni di dissenso. Lo fanno con spietata tenacia e coerenza perché l’unico obiettivo che hanno in testa è di spodestare Renzi.
Il problema è che il segretario del partito è un perdente, ma non un usurpatore, perché ha vinto le primarie. E ha perso gagliardamente tutte le competizioni nazionali, alle quali ora si è aggiunta la débâcle siciliana.
Per il nostro paese, questa rappresentazione del sistema politico ha una duplice conseguenza.
Da un lato la rinuncia di circa il 50 per cento degli elettori ad essere governati, cioè l’astensionismo. Dall’altra un investimento fiduciario in chi — come Grillo — non ha un passato e cumula tutte le ragioni del dissenso, e del dissesto, della vecchia politica.
Il voto ai 5 Stelle è di puro rancore, disperato. Non ha nulla dell’investimento fiduciario che ispira i partiti e movimenti di nuovo conio. I grillini non sono politici competenti (basta vedere Roma e Livorno, ma anche Torino è una città immobile). Non sono interessati ad uno straccio di democrazia al proprio interno. Si alimentano di una cultura fatta di complotti, risse, retoriche populistiche.
L’elettorato che con crescente successo li segue è dominato soltanto da uno spirito di rivalsa sui vecchi partiti. I grillini non puntano ad un’alternativa ad essi, ma a soddisfare la voglia di punirli. Di qui la propensione irrefrenabile alle denunce facili, soprattutto a fantasiosi complotti, insieme alla quotidiana evocazione del colpo di stato sull’uscio di casa.
Il loro linguaggio, la critica dei provvedimenti politici del governo come il trattamento aggressivo e volgare dei loro competitori ricorda il vecchio squadrismo.
Fortunatamente il grillismo è un movimento fluido, volatile. Bisogna averne paura, ma occorre studiarlo. Ha cominciato a farlo con rigore Piergiorgio Corbetta, il sociologo bolognese che ha curato, per il Mulino, il recente volume Come cambia il partito di Grillo.
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Salvatore Sechi è autore de “Dopo Falcone e Borsellino, perché lo Stato trattò con la mafia? Sul documento inabissato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie”, Goware 2017.