È stata la settimana degli addii: quello di Angelino Alfano, di Giuliano Pisapia e di Denis Verdini, uno sconfitto dalla propria irrilevanza, l’altro dalla propria irresolutezza, il terzo dalla propria doppiezza; tutti e tre bruciati dall’eccessiva vicinanza a Matteo Renzi, il segretario che in due anni è riuscito a fare salire il Pd sulle montagne russe, dal 40 per cento delle europee 2014 al 25 per cento dei sondaggi attuali (addirittura sotto la “quota Bersani” del 2013), e a trasformare sé stesso da aspirante premier a sicuro comprimario. Perché ormai anche lui si sta convincendo che, con questi numeri e senza alleati, non gli resta che il ruolo a margine di chi al tavolo di gioco può distribuire un po’ di carte ma non disputarsi il piatto.



Renzi è rimasto incastrato nel giochino che aveva escogitato: riesumare Silvio Berlusconi per trovare una sponda con cui fare le riforme. Il Cavaliere è riemerso dal passato e si prende la vendetta. Ma in questo scambio incrociato ormai nessuno può fare a meno dell’altro, nonostante la propaganda elettorale. Il Pd renziano è rimasto solo, privo della capacità di aggregare i cocci della sinistra. Il leader del centrodestra sbandiera accordi e alleanze, conta le gambe del tavolo (ora sono quattro ma non è detto che aumentino), tuttavia teme che gli accordi vadano all’aria subito dopo il voto.



La strategia del Cav è di imbarcare gente al centro, facendo toccare il 25 per cento a Forza Italia più moderati di recupero, e di arrivare al 40 con l’appoggio di Lega e Fratelli d’Italia. Ma proprio qui, nell’ala sovranista della coalizione, si è aperta una battaglia sanguinosa, con Salvini che ruba alla Meloni i campioni delle tessere della vecchia destra sociale (Alemanno, Storace, Menia, Saltamartini). Nel centrodestra dicono che vinceranno, ma se continuano a strapparsi i voti tra loro piuttosto che conquistarne altri, non andranno molto lontano. Tanto più se la Lega prende a bordo un po’ di riciclati ex An e poi si scandalizza per gli altri “impresentabili” di ritorno che porteranno la casacca azzurra. Cosa non si fa per assicurarsi il primato nella coalizione al momento di compilare le liste comuni.



In questa fase si sbandierano le coalizioni per convincere gli elettori che esiste una parvenza di unità, ma la realtà è che ognuno corre per sé. E a urne chiuse spazio alla fantapolitica degli accordi più o meno realistici e duraturi. A differenza di quanto pensa Berlusconi, la legge elettorale è fatta per fare mancare i numeri a qualunque coalizione obbligando a ulteriori accordi nel nuovo Parlamento. E qui non è affatto detto che le coalizioni che si presenteranno agli elettori resteranno coese dopo il voto. È questo che lega Renzi e Berlusconi, spinti anche dalla realpolitik di Eugenio Scalfari che preferisce il Cav a Di Maio: correre divisi per ritentare un asse. Le alternative? Salvini potrebbe allearsi con Grillo, ma come ruota di scorta perché la Lega magari prenderà più voti di Forza Italia però sicuramente non surclasserà i 5 Stelle. 

I grillini a loro volta potrebbero preferire un patto con la sinistra di Pietro Grasso: in fondo un bel magistrato premier è il sogno nemmeno tanto nascosto di Grillo, Travaglio e compagnia. Grasso ha già preso i voti del Movimento quando fu eletto presidente del Senato e potrebbe riprovarci. E la sinistra sta facendo passare la legge sul biotestamento proprio grazie ai voti grillini. Non è così assurdo che i 5 Stelle entrino in gioco. Se il partito di Grillo sarà il primo, un pensiero per coinvolgerlo Mattarella dovrà pur farlo, per non prendersi anche lui le stesse accuse rivolte a Napolitano di “ignorare l’esito delle urne”.