Il fallimento di Piero Fassino non è indolore per Matteo Renzi. Certo un suo successo non era auspicato dall’ex premier. Infatti l’incarico all’esponente ex Pci di tentare un recupero a sinistra (la desistenza degli scissionisti in alcuni collegi uninominali e una lista di Campo Progressista alleata) era stato accettato dal segretario del Pd “obtorto collo” come prezzo da pagare per non essere attaccato dopo la sconfitta in Sicilia e avere una conclusione unitaria della direzione. Ma per Renzi le richieste di Bersani e Pisapia erano irricevibili. Si pretendeva cioè dal segretario del Pd una sorta di “autocritica”: modifica del Jobs Act, coalizione senza i centristi di Alfano, nomina di un “garante” dell’alleanza (Romano Prodi o Valerio Onida) per “garantire” che Renzi non sarebbe stato il candidato della coalizione a Palazzo Chigi, candidati Pd non renziani nei collegi uninominali dove Mdp rinunciava a presentarsi e altro ancora. Tornato Fassino a mani vuote, Matteo Renzi — come si vede nell’intervista a Repubblica — è nuovamente al comando del partito con mani libere.
Ma la scena è piena di rottami: dopo la scissione di Mdp, Renzi registra l’uscita di scena di Pisapia e Alfano (con lo sfaldamento dei principali alleati della coalizione in base alla quale si era disegnata la nuova legge elettorale), il presidente del Senato, Pietro Grasso, rompe gli indugi e si mette alla guida del nuovo partito di sinistra contro il Pd, il centrodestra si ricompone e appare in crescita mentre in tutti i sondaggi il Pd scende a quota 2013 e il M5s torna a essere il primo partito. Il fatto che due personalità come i presidenti di Senato e Camera, Grasso e Boldrini — indipendentemente dalla valutazione del loro reale seguito personale — si schierino (il Quirinale silente) “investendo” sulla sconfitta di Renzi è come essere declassati dalle agenzie di rating.
In effetti il leader del Pd si trova su un trend non positivo. Dal giorno della sconfitta referendaria ha solo cercato di ottenere elezioni anticipate (in marzo, prima dell’estate, il 24 settembre e, infine, il 5 novembre insieme alle siciliane) mentre Gentiloni si è consolidato e la nostalgia di Renzi a Palazzo Chigi non sembra un fenomeno di massa. Ma soprattutto, accettando di continuare a fare il leader del Pd in una situazione che la sera della sconfitta referendaria aveva dipinto catastroficamente come “palude”, non è ancora riuscito a caratterizzarsi come promotore di una nuova stagione di riforme e disegnarne i contenuti. Nelle settimane in cui si definiva la Conferenza programmatica del Pd se ne è disinteressato con la tournée ferroviaria e l’ha conclusa con un generico comizio.
Rimasto orfano della diarchia Obama-Merkel, l’ex premier si è mosso come spaesato sulla scena europea. Macron, approfittando del fatto che la Merkel non ha più il sostegno di Washington, cerca di rimuovere l’egemonia tedesca e di rilanciare l’integrazione europea. Schulz lo sostiene e dal congresso del suo partito ripropone la Grande Coalizione — ma su basi nuove — come svolta rispetto alla politica Merkel-Schäuble in Europa. Renzi sembra invece fermo alla sinistra “braccio buono” della globalizzazione (meno stato sociale e più diritti civili) senza mettere a fuoco la necessità di affrontare le ragioni che sono alla base dell’antipolitica e del populismo e cioè l’impoverimento dei ceti medi e il bisogno di tutela in molti lavori senza presenza di sindacati. Renzi, al contrario di altri leader socialisti, ha disertato il congresso della Spd e da Macron è andato senza un obiettivo, un’idea, un accordo da proporre. Solo fotografie.
Sulla scena politica italiana Matteo Renzi rimane indubbiamente ancora protagonista rispetto a Luigi Di Maio e Silvio Berlusconi (o Matteo Salvini), ma pur rivestendo la posizione centrale rischia di perdere la centralità politica nel senso che sempre meno sembra intercettare le principali motivazioni che agitano l’elettorato.
Oggi ci sono due “paure” dominanti: chi teme l’avvento dei grillini e chi teme il ritorno di Berlusconi. Renzi nel suo inseguire ora i grillini (nei diritti civili) ora Berlusconi (nel neoliberismo) e con i sondaggi a suo sfavore appare meno affidabile come diga sia in un senso sia nell’altro.
Che i moderati possano nuovamente fare quadrato intorno al centro-destra non stupisce. Impressiona invece come si moltiplichino i segnali di spostamento da Renzi a favore di un’avventura con il M5s. Persino la “tessera numero uno del Pd”, Carlo De Benedetti, annuncia l’abbandono di Renzi e il partito del presidente del Senato dichiara “Siamo più vicini a M5s che al Pd renziano” con Bersani che conferma “Io ci sono se i grillini vogliono discutere con noi”. E Galli della Loggia in un editoriale del Corriere della Sera mette spregiudicatamente insieme chi non vota i partiti con il partito M5s e certifica che siffatto 58 per cento sono “italiani che vogliono cambiare le cose” mentre “gli altri partiti sono stati drammaticamente inferiori al loro compito”. Salvo il M5s — esorta quindi Galli della Loggia — tutti gli altri partiti devono fare “pubblica ammenda” e “non ripresentare i responsabili”. Insomma siamo in una situazione in cui persino Galli della Loggia fa “discorsi da bar” a favore di un’avventura nuovista. E’ da confidare che abbia ascolto chi indica ciò che è utile e possibile a partire dal “buon vicinato”, come l’arcivescovo di Milano, Delpini, quando esorta a uscire da “quella seminagione amara di scontento che diffonde scetticismo, risentimento e disprezzo, che si abitua a giudizi sommari e a condanne perentorie e getta discredito sulle istituzioni e sugli uomini e le donne che vi ricoprono ruoli di responsabilità”.