Il Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2017 rimarrà nella storia delle istituzioni continentali come la conferma dell’impossibilità di tenere insieme virtuosamente il principio funzionale e quello di rappresentanza territoriale. Beninteso, quest’ultimo di fatto l’Europa lo ha abolito, perché ha tolto al Parlamento europeo ogni potere legislativo di fatto, ossia di produrre leggi compulsive per la sola qualità di essere votate. Com’è noto, infatti, è il Consiglio che può produrre deliberazioni compulsive e non il Parlamento. E infatti le cosiddette leggi europee si chiamano direttive che vengono poi implementate dalla Commissione creando così quell’incredibile struttura burocratica, o tecnocrazia mista, che costituisce il primum mobile dell’Unione europea.
Come ho già detto, definisco quella tecnostruttura come “mista”, perché essa è di nomina sia meritocratica, sia direttamente clientelar-diadica, tra padrone e servo, attraversata da una matrice organizzativa che tiene conto, nel soppesare l’allocazione dei suoi componenti, della dimensione demografica di ciascuna nazione e rispetto a ciascuna nazione si decide di volta a volta, tenendo conto del peso delle forze politiche.
La sorpresa di questo Consiglio risiede nella pacatezza rassegnata del nostro primo ministro Gentiloni, che ha dichiarato che l’Italia preferisce che, rispetto al principio della rappresentanza territoriale, che si fa valere solo in Parlamento e che ha nel Consiglio una debole similitudine – dove a esser rappresentato non è il principio della volontà popolare, ma solo quello dell’esistere come nazione -, valga la via del consenso totale, ossia dell’unanimità. Chiunque conosca un po’ di teoria politica sa che il principio di unanimità è tipico della rappresentanza funzionale, dove non si vota, ma si decide sempre all’unanimità perché le rappresentanze, funzionali appunto, non si aggregano in base a scelte politiche.
Tutto è esploso perché sulla questione delle immigrazioni i paesi mitteleuropei e la Polonia continuano a non accettare nessuna ripartizione delle quote dei migranti medesimi. Non c’è da stupirsi. Chi conosca il capolavoro di uno dei più grandi storici ungheresi Istvan Bibò, che ha il significativo titolo “La miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale” sa benissimo che le questioni delle identità etnico-nazionali sono sempre state decisive in quel crogiuolo di nazioni a confini variabili e a trasmigrazioni continue di interi popoli, dai sudeti ai magiari del sud, alle minoranze romene in Bulgaria e viceversa, con conseguenti esplicitazioni politiche di tutto ciò sotto le bandiere del fascismo, del nazionalismo, dell’antisemitismo, dell’odio razziale e chi più ne ha più ne metta.
Tutto echeggia le tragedie degli anni Trenta e quelle della fine della Seconda guerra mondiale, dove in quelle terre la battaglia tra comunismo e capitalismo si combatté anche deportando intere popolazioni e non rispettando diritti di minoranze, così tante e numerose che se n’è perso il ricordo. È di questo che bisogna discutere. Ma queste discussioni, nella storia della civiltà occidentale, le hanno fatte sempre i parlamenti e sono sempre state più importanti delle discussioni sulle banche, sul corso delle monete, e di tutte quelle astruserie tecnocratiche ordoliberiste di cui Consiglio dopo Consiglio continuano ad ammorbarci. Adesso sono arrivati anche i conti della serva della Brexit.